
Due giganti del sassofono
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Un concerto davvero strano, quello presentato da Norman Granz e da noi il 31 marzo 1960, al Teatro Lirico. In cartellone, sotto l’insegna comune del Jazz At The Philarmonic, figuravano il quintetto di Miles Davis – con John Coltrane -, il quartetto di Stan Getz, e il trio di Oscar Peterson. Pensate: un confronto tra Coltrane e Getz. Come dire: il diavolo e l’acqua santa.
Ma non era strano soltanto il cartellone: era strana – e tesa – l’atmosfera, erano tesi i rapporti tra le persone, ed era scomodo stare tra le quinte, per lo meno per chi, come me, aveva a che fare con gli artisti.
C’era un Miles Davis più ingrugnato che mai, non faceva un passo senza il suo avvocato (se l’era portato appresso da New York), il quale avvocato ogni tanto diffidava Granz, che a sua volta diffidava Davis, contratto alla mano. C’era un Coltrane smarrito e insicuro che parlava poco o punto, e non sorrideva mai, imbarazzato dai litigi altrui e intimidito per trovarsi in un ambiente per lui nuovo. E c’era Oscar, che sembrava divertito proprio da quell’atmosfera agitata.
Quella volta, al Teatro Lirico, ci fu una gran battaglia, in platea, fra i sostenitori di Coltrane, che si ascoltava per la prima volta in Europa, e i suoi detrattori. («Ma lo senti quel pazzo, che cosa fa?» mi diceva un amico, mentre un altro subito rintuzzava: «Ma allora non avete capito niente! Questa è improvvisazione tematica!».) Quanto a Davis, sembrava anche lui fuori fase, e se ne capisce la ragione, visto che c’era l’avvocato ad attenderlo in camerino, con la borsa piena di scartoffie, per stabilire quanti milioni per danni avrebbe potuto richiedere a Granz non appena fossero tornati a casa…
Suonò bene o suonò male, Coltrane, quel giorno? A me (e a molti altri) parve che i suoi assolo fossero alquanto sgangherati, e lo scrissi. Mal me ne incolse poi, perché quel giudizio negativo sulla prestazione di un musicista che sarebbe divenuto celeberrimo mi sarebbe stato rinfacciato per anni, anche nel corso di dibattiti pubblici. E il bello è che praticamente nessuno fra coloro che assicurano che si doveva capire subito di trovarsi di fronte a del grande jazz era presente quel giorno in teatro. Del resto, che qualcosa non funzionasse per davvero si può desumere anche dai fischi sonori che il sassofonista (ancora scarsamente famoso, e comunque agli inizi della sua seconda, straordinaria carriera) aveva raccolto a Parigi la settimana prima.
Quel giorno comunque io mi posi i primi interrogativi a proposito di quel singolare personaggio. Me li pongo ancora, ad anni di distanza dalla sua morte e dopo aver letto ben tre libri biografici su di lui e chissà quanti articoli.
Che tipo di uomo era Coltrane? questo è il punto: un punto che lui, taciturno e riservato com’era, fece di tutto per lasciare oscuro. Il mistero di quelle due carriere, intanto. Una (dagli esordi al tempo della sua milizia nel quartetto di Thelonious Monk) tutt’altro che brillante; l’altra, a dir poco stupefacente, separata dalla fase precedente da un brusco cambiamento di stile, da un’autentica esplosione di genialità.
La sua vicenda umana – oggi accertata grazie ai suoi biografi – può offrire una chiave che a me sembra l’unica utilizzabile, per spiegare quel sorprendente «salto di qualità». per anni Coltrane era stato alcolizzato e schiavo dell’eroina: era stato insomma uno dei tanti sventurati junkies che popolano il mondo del jazz. (A proposito: bisognava vedere l’imitazione che Oscar Peterson faceva di un junkie, che con lo sguardo vacuo e un sorrisetto melenso sulle labbra, passandosi l’indice destro sul lato del naso, chiede all’amico un dollaro in prestito; poi, sentendosi opporre un rifiuto, si affretta a chiederne due, convinto di praticare uno sconto…) Ebbene, Coltrane non era affatto il tipo del junkie e dell’alcolizzato: anche perché era, ed era sempre stato, religiosissimo. E poi, come aveva fatto a disintossicarsi completamente, in così poco tempo? quando lo conobbi io, beveva in continuazione dei bicchieroni d’acqua calda ed era più che lucido. Era anche appena sbocciato come artista personalissimo. La sua prima incisione di My Favorite Things, che è quanto dire il suo primo capolavoro su disco, risale alla fine del 1960: non può essere una coincidenza.
Sarebbe dovuto passare qualche anno prima che potessi rivedere Coltrane, e fu ancora Granz che mi propose di presentarlo a Milano col suo già celebre quartetto.
Il complessino (completato da McCoy Tyner, elvin Jones e Jimmy Garrison) venne ben due volte, per dare complessivamente quattro concerti al teatro dell’Arte, al parco. La prima volta nel dicembre 1962, il quartetto venne accompagnato da Granz, e tutto filò liscio; la seconda, nell’ottobre dell’anno dopo, venne solo, e le cose non filarono lisce per niente.
Questa seconda volta le emozioni per me e per Maffei cominciarono subito, all’aeroporto, quando ci accorgemmo che tra i passeggeri appena arrivati da Amsterdam non c’era – contrariamente alle previsioni – proprio nessuno che assomigliasse a Coltrane e compagni. Avevamo purtroppo poco tempo a disposizione: l’aereo che avrebbe dovuto portare i nostri eroi era atterrato a Linate verso le due e mezzo del pomeriggio, e il primo dei due concerti sarebbe dovuto cominciare due ore dopo.
Accertato che il successivo aereo da Amsterdam sarebbe arrivato verso le cinque e mezza, prendemmo le misure necessarie per fronteggiare la difficile situazione: uno di noi corse in teatro per essere pronto a comunicare al pubblico quanto gli avremmo fatto sapere per telefono: e cioè che l’inizio del concerto sarebbe stato posposto all’ora X, oppure che sarebbe stato annullato. Gli altri, fra cui io, rimasero all’aeroporto per cercare di sapere in anticipo se tra i passeggeri del successivo volo ci fossero i nostri amici, e per poi accompagnarli al teatro. Fu Barazzetta che, valendosi di sue conoscenze, riuscì ad ottenere ciò che veniva dichiarato impossibile, e cioè farsi confermare – quando l’aereo era già in volo – che su di esso viaggiavano i Signori J. Coltrane e C. (Ricordo ancora chiarissimamente l’emozione con cui apprendemmo per telefono, da Amsterdam, che i quattro passeggeri da noi ricercati erano in volo verso Milano…)
Come Dio volle, i nostri atterrarono a Linate. Li caricai sulla macchina e mi avviai a tutta velocità verso il teatro, dove il pubblico, tenuto al corrente di quanto stava succedendo, era in paziente attesa da un paio d’ore (nessuno aveva chiesto il rimborso del biglietto, che pure avevamo offerto: per Trane valeva la pena aspettare…). Mentre guidavo, i miei nervi erano tanto tesi che ebbi un lapsus: invece di dire che il pubblico stava aspettando da ore (hours) in teatro, dissi ai quattro che aspettava da anni (years), ottenendo come risposta una fragorosa risata che mi rivelò che, fra i cinque uomini che si pigiavano nell’automobile, l’unico veramente preoccupato ero io. Poi feci a Coltrane questo discorsetto: «Ormai non c’è tempo per un intervallo sufficientemente lungo per andare al ristorante, fra un concerto e l’altro. Al massimo possiamo fare un intervallo di mezz’ora, durante il quale potrete mangiare delle bistecche che faremo portare in camerino». Mi confortò un tranquillo «Okay»: evidentemente il nostro si immedesimava nella situazione, anche se sembrava calmissimo.
Arrivato in teatro divenne ancora più calmo: si cambiò d’abito (suonava sempre in smoking) con grande lentezza, fece un po’ di toilette, e poi si rilassò alcuni minuti; e i suoi uomini fecero altrettanto. In quel modo si perse un’altra mezz’ora e si arrivò alle sette. Avrei poi imparato, in circostanze analoghe (anche Ray Charles ci fece, anni dopo, lo stesso scherzo e si comportò nello stesso identico modo), che è vano aspettarsi da un musicista di jazz americano dei movimenti affrettati prima di un concerto; alcuni minuti di relax (a base di sigarette più o meno «pesanti») prima di suonare sembrano assolutamente indispensabili.
Ma torniamo a Trane e ai suoi. Quella sera ci regalarono dello splendido jazz suonando quasi senza soluzione di continuità per più di quattro ore. Ci fu il previsto intervallo di mezz’ora per la bistecchina in camerino, ma per il resto: non-stop. Se si pensa che un assolo di Coltrane poteva continuare senza interruzione per tre quarti d’ora si può avere idea del tour de force a cui i quattro si sottoposero. Eppure, alla fine dei concerti, il leggendario sassofonista sembrava fresco esattamente com’era in principio. Come allora (quanto tempo era passato dal primo My Favorite Things della giornata? a me sembrava un’eternità) rispondeva quietamente, con un dolce, paziente sorriso sulle labbra, a qualunque domanda gli fosse rivolta. Era un uomo «serafico»: questo è l’aggettivo giusto. Proprio il contrario della sua musica, tumultuosa, ubriacante.
Quel sorriso mi diede il coraggio di rivolgergli alcune domande formali nella speranza di ottenere risposte sufficienti per cavarne un’intervista. Poi però troncai corto, perché provai compassione per gli altri tre uomini che, dopo aver fatto un viaggio da Amsterdam a Milano e aver dato due concerti di fila, il tutto nel giro di sei ore o giù di lì, avevano il diritto di andare a dormire. Tuttavia feci in tempo a ottenere qualche risposta, e la ricordo bene. Tra l’altro rammento la scarsa importanza che Coltrane annetteva a un suo disco che a me pareva ottimo, Olé Coltrane, e ricordo soprattutto l’incredibile modestia di cui, con ogni sua risposta, dava prova. A un certo punto mi disse di avere un contratto con la Impulse che lo obbligava a registrare tre LP l’anno. «E’ un problema serio» mi disse a questo proposito. «Per registrare tre dischi bisogna avere inventato tanto di quella musica! Nei dischi bisogna mettere solo il meglio di quanto si è inventato e suonato durante l’anno, e io non so proprio come farò…»
Rividi per l’ultima volta Coltrane, ancora coi suoi tre amici, al Festival del jazz di Juan les Pins, nel luglio del 1965. Gli sentii suonare un magnifico A Love Supreme (era la prima volta che ascoltavo da lui questo pezzo oggi famoso, perché allora il disco non era arrivato in Italia) e poi andai fra le quinte a salutarlo e a congratularmi con lui. «Guarda chi c’è» disse a Tyner, col sorrisetto serafico che gli conoscevo già. E’ inutile aggiungere che nonostante l’impegnativa impresa (A Love Supreme durava circa tre quarti d’ora), era fresco come una rosa.
Non riuscii più a presentarlo in Italia, anche se ci provai. Lo avevo anzi scritturato per due concerti fissati per il novembre 1967, quando, in maggio, mi sentii chiamare al telefono da Londra. Era Alan Bates (era lui che faceva da tramite con George Wein per quei concerti) che esordiva così: «Spero che tu sia seduto perché non vorrei che cadessi» per poi comunicarmi «Coltrane non viene in Europa: non se la sente, e poi vuole stare vicino alla moglie, che è incinta… ma stai tranquillo: invece del suo quartetto ti possiamo mandare Max Roach, Sonny Rollins e Freddie Hubbard».
Dopo di allora non seppi più nulla di Trane fino al luglio successivo, quando, su un giornale italiano, lessi con un brivido la notizia della sua morte improvvisa. Aveva avuto dei disturbi al fegato, e si era fatto ricoverare all’ospedale di New York: i medici avevano però detto subito che era ormai troppo tardi.
Coltrane aveva da tempo un cancro al fegato; soffriva le pene d’inferno ma non diceva niente a nessuno, per non disturbare. Aveva solo diradato le apparizioni in pubblico. Quando mandò all’aria la tournée combinatagli da George Wein disse soltanto che non se la sentiva e che non voleva lasciar sola la moglie.
Sono sicuro che lo disse con quel sorriso serafico che gli avevo visto tante volte sulle labbra chiuse.
La sostituzione con Sonny Rollins e compagni, che sulla carta sembrava accettabile, non fu buona. Non per colpa di Max Roach, che suonò benissimo come sempre, o di Hubbard, che oltretutto costituiva una novità per l’Italia, ma per via di Rollins, che suonò male in modo imbarazzante.
Rollins è un tipo bizzarro, da cui ci si può aspettare di tutto. Io l’avevo conosciuto anni prima, nel 59, quando era venuto col suo trio al Festival del Jazz di Sanremo, poco prima del suo ritiro sul ponte di Williamsburg (ricordate? scomparve silenziosamente dalla scena per mesi per rimettersi a studiare lo strumento; si seppe poi che andava a esercitarsi di notte sul passaggio pedonale di quel ponte, nei pressi della sua casa, a New York…). Poi l’avevamo invitato ancora a Milano, e quindi, nel 1966, per quello che sarebbe stato l’ultimo Festival del Jazz di Sanremo, ma non si è visto.
Quella volta ci aveva procurato guai seri non solo perché lui avrebbe dovuto essere, con Ornette Coleman (che venne), la più grande attrazione della manifestazione, ma perché non ci preavvertì della sua defezione, che decise improvvisamente, quando aveva già in tasca il biglietto dell’aereo per Nizza, perché adescato (ci dissero) da una donnina di piccola virtù. Dopo quell’incidente avemmo uno scambio di lettere (la sua non giustificava nulla e non era neppure firmata, per dimenticanza, pur essendo tutta scritta a mano, ma accompagnava il biglietto d’aereo, che veniva così restituito): ci vedemmo giusto poco prima del concerto con Roach.
Non saprei dire se fosse consapevole di trovarsi dinanzi a quel tale di Sanremo: nessuno di noi accennò al fattaccio, e poi lui aveva un fare più enigmatico del consueto.
Fatto sta che suonò malissimo, come ho detto. E questo, per un tipo come Rollins, meritatamente noto nel mondo come «saxophone colossus», era stupefacente. (Chiesi poi a Roach se l’amico stesse male , ma lui rispose: «No, sta benissimo. Solo che pensa a fare della musica astratta. Sai, come quelle forme di Picasso…».)
Dieci anni dopo incontrai il «saxophone colossus» a Torino, fra le quinte di un festival non organizzato da me. Mi riconobbe immediatamente, mi salutò chiamandomi per nome e mi dedicò uno di quei suoi larghi sorrisi da satanasso. poco dopo regalò a me e agli altri uno splendido concerto.
Il marpione!