
Mingus
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Oggi, chi lo incontra prima di un concerto è tentato di scuotere la testa: «Ce la farà a suonare, ridotto com’è?». Il fatto è che Charles Mingus, da qualche anno in qua, ha sempre l’aria sofferente, molto sofferente. E sembra oppresso da un invincibile torpore. Spiccica le parole con difficoltà, e la voce è poco risonante, strascicata; quell’accento del sud, poi, rende le sue frasi quasi inintelligibili.
Però, quando comincia a suonare, si sveglia di botto: rinasce, esplode. Se è in buona giornata trascina il pubblico all’entusiasmo: sempre e comunque la sua musica è eccellente.
Anni fa, nell’aprile del 1964, quando compì la sua prima, burrascosissima tournée europea, era un uomo del tutto diverso, e non solo perché era magro e scattante, mentre ora è obeso e si muove con lentezza di un pachiderma. era diversa la tensione, differente la temperatura, il grado di agitazione: allora sembrava una pistola carica, pronta a sparare, che bisognava trattare con molta cautela; ora, quando è di umore normale, può far pensare a un bonario papà.
Nel 1964 arrivò a Milano invitato da George Wein. Aveva un magnifico complesso in cui faceva spicco Eric Dolphy: quello stesso gruppo che a Parigi registrò la musica che finì poi in un album triplo intitolato The Great Concert Of Charles Mingus. Purtroppo quel complesso, proprio a Parigi, perse uno dei suoi uomini, perché il trombettista Johnny Coles, ammalatosi improvvisamente, dovette tornarsene in America.
«Credo che avrai cinque uomini invece di sei», mi aveva avvertito Wein per telefono da Parigi, e così fu. In compenso ebbi un Mingus agitatissimo, che non sapeva rassegnarsi a suonare con un quintetto. «Il sestetto suona dieci volte meglio», mi ripeteva, e a un certo punto mi pregò di telegrafare a New York, dove Wein era nel frattempo ritornato, per chiedergli di inviarci Lonnie Hillyer. Non so per quale ragione l’impresario non lo abbia accontentato, so che il suo rifiuto rese furioso il contrabbassista, che gratificò poi Wein, anche dal palcoscenico, di ogni sorta di epiteti.
Prima di suonare a Milano, i cinque dovettero andare a Bologna per esibirsi per Alberto Alberti e Antonio Foresti nel corso di un festival del jazz. Toccò a me accompagnarli con la mia automobile a Bologna, e il viaggio sarebbe andato bene se io non mi fossi lasciato convincere a cedere la guida la road manager del gruppo, un certo Anthony, il quale, una volta che ebbe in mano il volante, dichiarò di essere un pilota di auto da corsa, e probabilmente lo era davvero, a giudicare dal modo spericolato in cui guidava. Durante quell’emozionante viaggio, Mingus mi raccontò dei suoi dissapori con Bob Thiele, il produttore dei suoi dischi per la Impulse, e mi chiese tra l’altro se non sarebbe stato possibile organizzargli a Milano una seduta di registrazione: fu il Padreterno che mi ispirò a dirgli subito che non mi sarebbe stato possibile (del resto, avrebbe dovuto dare due concerti in un giorno: come avrebbe potuto anche incidere un disco?), perché alla luce di ciò che accadde dopo sarebbero stati guai seri.
basta così A Bologna lo lasciai nella hall dell’albergo e gli diedi un appuntamento per il giorno successivo alle 14, davanti a un certo albergo milanese.
Il giorno dopo l’aspettai invano per oltre un’ora, quindi mi trasferii al teatro dell’Arte e lo aspettai ancora, col batticuore che si può immaginare. Comparve coi suoi musicisti, in automobile, giusto quindici minuti prima dell’ora fissata per il concerto pomeridiano: il ritardo era dovuto al fatto – mi disse – che né lui né gli altri avevano toccato le lenzuola che li aspettavano, perché avevano suonato tutta la notte in jam session (ciò che avevano fatto del tutto volontariamente…).
Il concerto cominciò, e fu un bellissimo concerto, anche se il nostro amico era molto agitato. A un certo punto si impelagò in un dialogo strumentale con Dolphy, in cui questi, come fa anche su un disco, gli rispondeva imitando, col sassofono la voce umana, e altrettanto faceva Mingus sul contrabbasso. La cosa andò avanti troppo e non sembrava gran che concludente, tanto che qualche spettatore, spazientito, cominciò a sibilare. Di botto, Mingus smise di suonare, appoggiò in terra il contrabbasso, e arringò il pubblico: «Né io né i miei musicisti abbiamo chiuso occhio questa notte» disse pressappoco «e finché gli impresari ci tratteranno in questa maniera questa è la musica che voi potrete avere».
Nell’intervallo del concerto serale cercai di accordarmi con lui sul da farsi per fare partire il gruppo in orario la mattina dopo. li avrei riaccompagnati subito in albergo e poi sarei andato a riprenderli verso le otto del mattino per portarli all’aeroporto, fu la mia proposta. «No, » mi rispose «Non c’è abbastanza tempo per dormire. Non andremo in albergo; ci porterai direttamente in aeroporto da qui. passeremo la notte seduti sulle poltrone dell’atrio.»
Non è il caso di riferire le imprecazioni dei suoi uomini quando comunica loro questo programma: per la seconda notte di fila non si sarebbero neppure infilati nei letti che li aspettavano. ma obbedirono disciplinatamente alle disposizioni: quando il concerto fu finito, Mingus se ne andò con Giorgio Buratti, mentre Dolphy, Clifford Jordan, Jaki Byard e Dannie Richmond furono caricati sulla mia macchina, che si diresse verso Linate. Potei così constatare che i miei passeggeri avevano ancora una buona riserva di energia: durante il percorso infatti, Byard e Jordan non fecero altro che rimproverare Eric Dolphy per certe sue avventure con gli uomini della third stream music (Gunther Schuller in testa). «It’s a drag», è una gran barba, diceva Byard; e Dolphy protestava che quella musica era interessante, e rivendicava per sé il diritto di fare degli esperimenti con chiunque gli piacesse.
Nei giorni successivi appresi che Mingus, in Svizzera, ne aveva fatte di tutti i colori. Pare che a un certo punto avesse anche tirato fuori un coltello per minacciare qualcuno coinvolto nell’organizzazione dei suoi concerti. Si lamentarono dei danni; la stampa specializzata deprecò il comportamento di Mingus. Poi Wein e Mingus vennero ai ferri corti: il contrabbassista mi disse in seguito che, per coprire i pretesi danni rifusi da Wein, questi si rivalse sui suoi compensi. Fatto sta che quando incontrai Mingus a New York, nel 1967 (nel frattempo Eric Dolphy, che si era stabilito in Europa, era morto), mi disse peste e corna del suo impresario, e anche del suo road manager, il «corridore» Anthony (e qui mi trovava del tutto consenziente).
Poi non vidi Mingus per un po’. Lessi che era ammalato, che aveva avuto un ricovero nel reparto psichiatrico dell’Ospedale Bellevue di New York, dove si era presentato spontaneamente, dichiarando che non dormiva da giorni. (io non stentai a crederlo…)
Anni dopo. nel 1970, ricomparve a Milano, pilotato ancora una volta da george Wein. Il quale era gongolante: «Non è una cosa straordinaria avere ricuperato Mingus?» diceva. Gli chiesi «Ma si può sapere cosa ha avuto?». «Be’, era semplicemente matto. Adesso però sta bene. Anzi, magari è un po’ troppo calmo, perché il medico gli ha prescritto molti tranquillanti.»
Altro che calmo! Era intontito, irriconoscibile. E non riconosceva nessuno. A New York mi aveva riconosciuto immediatamente e dimostrato di ricordarsi ogni particolare della tempestosa breve tournée italiana e così avrebbe fatto in futuro: ora non ricordava nulla. Anche Buratti, il suo ammiratore numero uno a Milano, dovette convenire che il suo eroe era in crisi. Era in crisi anche come musicista: al festival del jazz che si svolse in quei giorni al Lirico, e in cui era inserito, fece soltanto dell’insipido bebop, persino fuori moda. I giornalisti, che lo avevano dipinto come un personaggio imprevedibile, sempre agitato, un vulcano in eruzione, ci rimasero male.
Ma il personaggio era (ed è) davvero imprevedibile. Quando tornò a Milano, per un concerto che io e Maffei avevamo organizzato nel cortile del Castello Sforzesco, ce l’aveva col suo nuovo sassofonista, Bobby Jones. E questi aveva una paura matta, tanto che mi disse: «Vorrei che sul palco ci fosse un agente di polizia. Per la mia incolumità». Comunque non successe niente. L’unica cosa che successe fu che Mingus non si attenne alle nostre istruzioni, secondo cui avrebbe dovuto tenere il contrabbasso a brevissima distanza dal microfono: così che si percepì a fatica, perse la pazienza per le proteste del pubblico, e disinnestò il microfono in modo che non si sentì più del tutto. A concerto finito chiese a me se non fosse possibile fargli avere in America un impianto di amplificazione come quello: l’aveva trovato eccellente.
negli anni successivi Mingus è tornato più volte in Italia, sempre portato da Alberti e Foresti e inviato da Wein; ha suonato quasi sempre splendidamente e, che io sappia, non ha causato problemi a nessuno. io non manco mai di andarlo a trovare dietro il palcoscenico: ci facciamo delle grandi feste.