Incontro con Joe

Caro, vecchio Joe Venuti: era stato uno degli idoli di noi jazz-fans della prima generazione; poi, da molti anni ormai, era scomparso dalle cronache del jazz. Si sapeva che lavorava, per una parte dell’anno, a las Vegas, e che abitava a Seattle, presso il confine canadese, ma, fino al giorno in cui venne in Italia, nell’ottobre 1969, per prendere parte a uno dei nostri festival del jazz, pochi sapevano come e che cosa suonasse. Personalmente, poi, non avrei mai pensato, fino allora, che mi sarebbe capitato di presentarlo, in concerto, al pubblico milanese, e meno che mai che quel pubblico si sarebbe entusiasmato al suono del suo violino. Così è stato invece, e debbo dire che l’incontro con questo patriarca del jazz è stato uno dei più piacevoli, dei più toccanti che mi siano capitati.
Avevo incontrato Venuti, come tanti altri jazzmen, nell’atrio di un aeroporto; quello della Malpensa, dove era arrivato insieme con Ruby Braff dopo un viaggio di trenta ore, proveniente dal Giappone. «Come stai, Arrigo?» mi ero sentito apostrofare, in italiano, dall’anziano signore che avevo individuato subito per joe Venuti per il fatto che si trovava a fianco di Braff. da quel momento fummo amici: ci facemmo compagnia per alcuni giorni, durante il suo soggiorno milanese precedente l’inizio della tournée europea dei suoi Newport All Stars, poi ci ritrovammo a Lugano, per un altro festival, e quindi ancora a Milano. Negli anni successivi avrebbe trascorso parecchi mesi a Milano, per suonare un po’ dovunque in Italia. Per molte ore ebbi quindi modo di sentire dalla sua voce i racconti della favolosa età del jazz, di quando Bix Beiderbecke faceva coppia fissa con Frankie Trumbauer, e lui, Venuti, si portava appresso dovunque andasse Eddie Lang, ovvero Salvatore Massaro, il primo grande chitarrista di jazz.
«Quello era il vero jazz, sai? quella era la vera musica americana. Ma ora è finito tutto: se continua così, col rock mischiato al jazz e con certa musica d’avanguardia, tra poco non sarà rimasto nulla.» Appare chiaro, ascoltandolo parlare, che Venuti non si trova a suo agio nella scena attuale del jazz, che del resto non gli è gran che familiare. strappato al sereno mondo a cui era appartato da anni («Perché mi sono stabilito a Seattle? Perché è una città dove non ci sono musicisti», mi ha detto), venuti sembrava tutt’altro che contento di essere tornato nella piena luce della ribalta: era però lieto, lietissimo, di essere tornato in Italia, il suo paese d’origine, che glia aveva riservato un’accoglienza calorosissima.
«Io sono nato a Lecco, non in America, come è scritto in certi libri. In America ci sono andato, quando avevo sei anni, nel 1904. I miei mi avevano lasciato a casa, con mio nonno, perché quando loro emigrarono negli Stati Uniti io ero troppo piccolo.» Quando parla di suo nonno, della sua Lecco, Venuti si intenerisce: ricorda tante cose, con fotografica recisione, di quell’angolino di un Italia povera, contadina, che non c’è più da un pezzo, e non si stanca di raccontare di quei tempi lontani. Suo nonno, al pari di suo padre, era uno scultore di statue per cimiteri (quando è andato a Lecco ha voluto fare una capatina al cimitero per vedere se ci fossero ancora statue sue), e fu per anni il suo maestro. Si deve a lui se oggi il vecchio violinista sa molte cose dell’Italia e se in grado di recitare, uno dopo l’altro, i nomi di tutti i capoluoghi della Lombardia.
Il suo primo approdo negli Stati Uniti fu New Orleans, dove la sua famiglia, allietata da ben diciassette figli, si era provvisoriamente stabilita. fu lì che il piccolo Joe incontrò per la prima volta il jazz: un incontro che si sarebbe rivelato prezioso anni dopo, quando, dopo essersi trasferito a Filadelfia e avere compiuto approfonditi studi musicali accademici decise di dedicarsi alla nuova musica, che sembrava consentirgli una rapida carriera. «Suonavo in una orchestra sinfonica» mi spiegò «e finii per rendermi conto che ci sarebbero voluti molti anni per diventare primo violino: così entrai in un orchestra jazz. Ma ai miei non dissi nulla, perché sapevo che avrei dato loro un dispiacere.»
Come tutti i jazzofili sanno, l’inseparabile compagno delle sue prime esperienze jazzistiche fu Eddie Lang, un giovane di origine abruzzese che aveva conosciuto sui banchi di scuola a Filadelfia.
«Sai che cosa suonavamo quando facevamo del jazz? Delle mazurche, delle polche italiane. Pretty Tricks, per esempio, è la mazurca di Migliavacca. E un’altra mazurca è Beating the Dog. Ti ricordi Sunshine? Il motivo è quello degli stornelli montanari. e poi ogni tanto usavamo delle arie di opere famose: in Doin’ Things, per esempio, si può sentire l’aria di Musetta nella Bohéme. Gli americani, che sono ignoranti, non si accorgevano di niente…» Per dimostrare questa verità, Venuti, che è una miniera di gustosissimi aneddoti, racconta un altro episodio: «Un giorno io e Eddie suonavamo in un caffè, e qualcuno del pubblico ci chiese di suonare un pezzo classico. Eddie non ne conosceva nessuno e allora decidemmo di suonare, molto lentamente, e con solennità, il Tiger Rag…».
Lang poi aveva trovato il modo di ingannare il pubblico americano: si tingeva la faccia e le mani per farsi passare per un negro. lo faceva quando voleva suonare con un complesso di negri: a quel tempo vederci in mezzo una faccia bianca avrebbe fatto scandalo.
Portarsi appresso Eddie Lang comportava qualche difficoltà per Venuti. Il giovanotto infatti non sapeva leggere una nota di musica; ciò che non gli impedì di farsi assumere, insieme a Venuti, nella grande orchestra di Paul Whiteman, allora sulla cresta dell’onda. «Nessuno sapeva che Eddie non conosceva la musica: aveva tanto orecchio che se la cavava benissimo» mi ha raccontato Joe con espressione divertita. «Io ad ogni modo gli stavo sempre vicino, e quando sulla partitura era indicato un passaggio di chitarra, io gli davo un colpetto col piede, e gli sussurravo: Passage
Nell’orchestra di Paul whiteman, in cui venuti entrò dopo aver suonato in varie formazioni, fra cui quella di Jean Goldkette («Duke Ellington aveva paura di suonare dopo l’orchestra di Goldkette, sai?», assicura il violinista), militavano in quegli anni musicisti che sarebbero rimasti nella storia del jazz: tra gli altri Bix Beiderbecke, frankie Trumbauer e persino l’allora esordiente Bing Crosby, uno dei quattro Rhythm Boys. «Bing era sempre a corto di quattrini» ricorda Venuti «e per molti mesi, io, che guadagnavo bene, lo sovvenzionai. Devo dire che Bing non se n’è mai dimenticato.» (I due sono rimasti amiconi per anni: fecero anche un viaggio assieme in Italia, l’anno delle Olimpiadi di Roma, e fu un’umiliazione per bing, che constatava ogni giorno che nessuno lo riconosceva…)
Ma il discorso torna ancora su Eddie Lang. Com’è morto Lang? in seguito a una banale tonsillectomia, probabilmente per l’asineria del medico che lo operò. Su questo Joe non ha dubbi: «Quando ho saputo cos’era successo sono corso dal medico, l’ho preso per la cravatta e gli ho gridato «Che cosa fatto a Eddie?» E’ finita che mi hanno arrestato». Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima: ai suoi verd’anni Joe era un uomo che prendeva fuoco facilmente e che menava le mani spesso. Ed è tuttora orgoglioso di questi trascorsi.
Non manca qualche aneddoto su Bix Beiderbecke. Questo, per esempio: «Durante una trasferta in treno con l’orchestra di Paul Whiteman, Bix fu accompagnato nella sua cuccetta del vagone letto: sai, era sempre un poco ubriaco, e anche quella sera lo era. Così decidemmo di fargli uno scherzo. la notte, mentre dormiva, versammo parecchia sabbia sopra e sotto il suo lettino, con l’intesa di dirgli la mattina dopo, che avevamo attraversato il deserto e che c’era stata una grande tempesta di sabbia. Bix la bevve. La mattina ci fece vedere la sua cuccetta dicendoci: «Che terribile tempesta di sabbia c’è stata!».
Del resto Venuti era, ed è tuttora, famoso per i suoi scherzi. Si racconta ancora, fra i jazzmen americani, di quando Joe convocò una cinquantina di contrabbassisti (ciascuno col proprio strumento) dinanzi a uno studio d’incisione nel bel centro di New York, assicurando a ciascuno di loro che era atteso per una registrazione: andò a finire che quelli ingorgarono il traffico, o quasi. E c’è quell’altra storia di quando lui, d’accordo con altri colleghi d’orchestra, infilò una calza da donna nel trombone di Tommy Dorsey, il quale per giorni e giorni si lamentò di essere diventato sordo, e poi impazzi dalla felicità quando i burloni, sempre di nascosto a lui, ebbero tolto la calza.
Gli anni ruggenti finirono abbastanza presto per Joe Venuti, che a poco a poco, negli ultimi anni trenta, si allontanò dal campo di battaglia del jazz. Si trasferì sulla Costa del Pacifico, prese parte a numerose trasmissioni radio assieme al vecchio amico Bing Crosby, suonò anche per gli spettacoli di Bob Hope, e poi, per anni, fu una delle attrazioni di Las Vegas, dove apparve spesso al fianco di Phil Harris, un cantante che aveva avuto il suo momento d’oro negli anni trenta ma che a Las Vegas riusciva a sopravvivere. Il guaio di quelle scritture era la tentazione delle molte bische per cui la città del Nevada è famosa: Joe non esita a confessare che fu vittima di quella continua seduzione.
Venuti era stato riscoperto dal pubblico del jazz pochi mesi prima di venire a Milano la prima volta: Aveva suonato al festival di Newport, poi a quello di Monterey, e ad Aspen, in uno di quei favolosi ricevimenti a suon di jazz organizzati da un ricco residente: il finanziere Dick Gibson, quello stesso che sere possibile, con le sue sovvenzioni, la nascita della World’s Greatest Jazz Band.
Tanti successi non avevano commosso venuti: lo commuoveva invece l’accoglienza riservatagli dal pubblico milanese, quella sera, al Lirico.
Per questo motivo ci mettemmo d’accordo, prima che partisse. Io avrei cercato di organizzargli una decina di concerti in Italia, e lui sarebbe tornato, di lì a qualche mese.
Tornò, infatti, insieme al pianista Lou Stein, e non stette una ventina di giorni, come io avevo previsto e come i concerti da me allineati consentivano: rimase un anno. E suonò dappertutto.
Fu lui a lanciare a Milano Il Capolinea, ritrovo dei musicisti di jazz milanesi e di molti appassionati, diretto con amore da Giorgio Vanni. Per non annoiarsi, e per stare in compagnia, Venuti si presentò infatti per parecchio tempo, ogni sera, al Capolinea, col violino sottobraccio, pronto a suonare.
E suonò. Scoprì anche qualche musicista di talento che era sfuggito alla nostra attenzione: tipi come Joe Cusumano, chitarrista, e Mario Rusca, pianista.