Sapevate che…Mario Schiano è stato una delle personalità più significative del jazz italiano?
Se “Free Jazz” di Ornette Coleman è diventato il disco manifesto dell’omonima corrente musicale, si può ben dire che “An European Proposal” registrato da Mario Schiano alla fine degli anni Settanta sia il manifesto del nuovo jazz europeo. All’epoca infatti la scena musicale continentale era divisa per nazionalità, e il pianista Misha Mengelberg, il batterista Han Bennink e il trombonista Paul Rutherford che erano figure centrali delle scene jazzistiche delle rispettive nazioni, avevano circolazione limitata al di fuori. L’incontro di questi importanti musicisti fu istigato dal sassofonista Mario Schiano, che ha giocato un ruolo unico nella evoluzione del jazz in Italia. Anche se le sue idee musicali e organizzative erano tra le più avanzate e visionarie dell’Europa intera dopo la seconda metà degli anni Sessanta, (i suoi primi tentativi di formare collettivi musicali risalgono più o meno al tempo della fondazione della AACM), Schiano non è ancora sufficientemente riconosciuto come uno dei padri di quello che a volte viene chiamato Euro-jazz, una etichetta che può coprire cose molto diverse ma che implica in sostanza una ricerca di indipendenza rispetto ai modelli americani dominanti.
Si è discusso molto di come l’Europa abbia abbracciato il jazz al contrario deglu USA, e questa affermazione è vera, solo però entro precisi limiti. Al contrario infatti, l’atteggiamento di molte personalità e istituzioni della cultura “alta” è stato quello di una stolida opposizione o al contrario di una accettazione paternalistica. Le famose violente parole di Adorno sono solo la punta del’iceberg, dato che basta leggere i diari di Sartre per vedere come, malgrado tutta la sua familiarità personale con Miles, parla di jazz senza saperne e capirne nulla. Certo, gli appassionati e gli ascoltatori europei accettarono molto presto il jazz come musica d’arte e d’ascolto, organizzando festival, fondando riviste e scrivendo libri; ma questo accadde in misura cospicua fuori e contro le grandi istituzioni culturali.
Allo stesso tempo, critici e storici europei hanno basato i loro scritti solo sull’ascolto dei dischi, senza conoscenze dirette dell’humus musicale da cui era derivato, e hanno inconsciamente applicato al jazz – a volte per nobilitarlo – uno schema derivato dalla storia della musica composta europea e della sua progressiva liberazione dalle leggi del sistema tonale. Non è un caso che i maggiori esponenti della musica di “avanguardia” del Ventesimo secolo da Messiaen e Boulez a Berio e Stockhausen siano stati tra i più fieri oppositori del jazz, più che del suo materiale proprio della sua prassi fondamentale, quella improvvisativa. Grazie al lavoro critico di George Lewis abbiamo ora ora la categoria di “trans-africano” per descrivere un approccio alla musica radicalmente differente da quello diventato dominante nella musica europea degli ultimi tre secoli. Nel documentario “Play Your Own Thing” diretto dal regista tedesco Julian Benedikt, un documento cruciale, rigoroso e commovente sul jazz europeo, ho ascoltato l’acuto e tagliente commento di Dee Dee Bridgewater che dopo aver scoperto un bisnonno tedesco ha “cominciato ad avere dei problemi con il termine “afroamericano”.
In tutti le capitali della cultura europea – Londra, Parigi, Berlino, Vienna, Praga, Amsterdam – il jazz esisteva solo fuori e contro le istituzioni culturali, visto alternativamente come attività sospetta da bandire tout-court o come un modo di attrarre pubblico e rimettere in sesto bilanci barcollanti. Solo negli ultimi anni alcuni dei Conservatori hanno cominciato a trattare l’argomento in maniera seria, ma l’esistenza di luoghi come il BIMhuis o la Dynamo di Banlieues Bleues non deve oscurare le battaglie che la loro sopravvivenza ha richiesto, le molte altre attività simili chhe sono state strangolate, o la rapacità con cui l’establishment culturale tenta di imporre una visione del jazz classicista e museificata.
Roma negli anni Sessanta e Settanta era anche peggio. Jazz viveva la sua esistenza tra night-club equivoci e cantine underground, si ascoltava di rado nei media di massa o nelle sale da concerto, era trattato dai settimanali d’informazione per dare ai letttori un brivido peccaminoso, e non si poteva neppur sognare di entrare nel conservatorio o nell’università. I musicisti e gli arrangiatori di jazz erano benvenuti negli studi di registrazione delle colonne sonore cinematografiche o della musica d’atmosfera a metraggio per la loro flessibilità e capacità improvvisativa, e davano corpo alle orchestre ritmiche che accompagnavano i cantanti più popolari; i loro nomi raramente risultavano però da titoli di coda e copertine. Ancora negli anni Settanta un pianista e compositore dalle impeccabili credenziali accademiche come Giorgio Gaslini fu invitato a insegnare jazz al Conservatorio di S. Cecilia, solo per essere cacciato l’anno dopo perchè le sue lezioni erano troppo popolari, con decine di giovani musicisti che chiedevano di partecipare come esterni. Oggi il jazz gode di una certa immagine; ci sono big band, stagioni concertistiche, insegnamenti al Conservatorio e addirittura una Casa del jazz a Roma, ma i limiti e i difetti di strumentalizzazione di questa situazione sono troppo ampi per poter esere qui discussi.
Quando Mario Schiano arrivò a Roma da Napoli intorno al 1960 trovò una scena jazzistica molto più ricca di quella della sua città d’origine dove aveva già svolto un ruolo di primo piano. L’ambiente era tuttavia diviso in fazioni, orchestrali contro dilettanti, e tra gli appassionati di jazz fervevano le discussioni tra sostenitori dei diversi stili, che per lui non rivestivano nessun interesse. Contava solo la passione divorante per la musica, che lo portò a entrare in band di stile New Orleans come gli Aurelian Syncopators dove la sua presenza e il suo atteggiamento scatenarono roventi discussioni su “purezza” di stile e libertà d’improvvisazione, ma dove incontrò anche il sassofonista Ivan Vandor. Alla metà degli anni Sessanta una ventata d’aria fresca arrivò con musicisti americani che si trasferirono in città per suonare o per godersi la dolce vita. Gato Barbieri, Don Cherry, Steve Lacy, Kent Carter, Paul Bley e Barry Altschul abitavano con amanti o amici, e frequentavano musicisti, attori e artisti portando notizie di prima mano su quello che avveniva nel jazz a New York: gli esperimenti di Cecil Taylor, l’arrivo di Ornette. Parallelamente si manifestava un altro nomadismo, con giovani compositori americani che scappavano a Roma per sfuggire ai tetri rigori seriali dei Darmstadt Ferienkurse e scoprivano l’improvvisazione: Alvin Curran e Richard Teitelbaum univano le loro forze con Lacy per fondare MEV, mentre con una simile prospettiva Franco Evangelisti dava vita a Nuova Consonanza, un gruppo di compositori dedicato all’improvvisazione.
Schiano intraprese un percorso analogo con un altro compositore di musica contemporanea, Franco Guaccero. L’atteggiamento di un musicista come Franco Evangelisti, ricordava Mario, era del tutto differente da quello di Guaccero, in particolare dal punto di vista del coinvolgimento emotivo, elemento chiave per lo Schiano improvvisatore. Possiamo ascoltarli insieme per la prima volta in due pezzi pubblicati su “On The Waiting-List”, registrato nel 1973; Guaccero alle tastiere accetta in pieno le regole di gioco del gruppo, dove “conta solo giocare un gioco in cui la posta è la vita stessa”. Guaccero e Schiano si trovano immediatamente sulla stessa lunghezza d’onda fin dal primo brano, nell’opposizione agli opprimenti riff dei fiati; le dissonanze spezzate dell’organo di Guaccero riecheggiano il soprano di Schiano e combattono ogni tentativo di “fare” swing fino a che non riescono a sviluppare un accordo iridescente e sospeso. Nel secondo pezzo un pianoforte preparato sul momento esplora la natura percussiva dello strumento in un percorso parallelo a quelli di Tippett o Taylor.
Nel 1977 Schiano e Guaccero registrano Dè Dè, l’unico disco completo fatto insieme, basato sull’esperienza del loro gruppo, Laboratorio Musicale, intensamente attivo ma mai registrato. De dè rappresenta nel lavoro di Schiano il punto più vicino alla pura ricerca sonora, parallela a quella di un Roscoe Mitchell a Chicago e della AMM in Inghilterra. Il gruppo è completato da Alessandro Sbordoni, che tornerà presto alle sponde più sicure della composizione, e Bruno Tommaso, che suona oltre al basso percussioni e viola da gamba, uno strumento da lui usato raramente al di fuori delle sue attività specialistiche nell’ambito della musica antica.
SI tratta di una vera edizione limitata: stampato in poche centinaia di copie, i vinili invenduti (la maggioranza) vennero ben presto inviati al riciclo, e quindi ce ne sono certamente meno di cento copie. Come succede per altri dischi di Schiano, le due facciate hanno personalità differenti, aspetto che si perde nella benemerita riedizione in Cd. Nella prima si trova una lunga improvvisazione ispirata dallo stesso verso di Mallarmè che forma la base testuale di un brano di Barry Guy registrato dall’autore con l’Hilliard Ensemble (“New Music For Voices”, ECM New Series 453 259-2). I quattro musicisti cercano e raggiungono quello stato perfetto in cui la musica sembra fluire da sola, senza distinguibili contributi personali dei quattro musicisti; jazz, musica da banda d’ottoni, musica da ballo e canzoni pop sono via via assoggettate a un processo di citazione e dissezione, con un movimento che sarebbe piaciuto a Ives (il compositore americano viene giustamente citato da Guaccero nelle sue note di copertina, con Varèse). Il bilanciamento sonoro è abbastanza precario, ma la voce di Tommaso emerge di frequente per l’appropriatezza degli interventi e per come riesce a sostenere e collegare le varie parti dell’improvvisazione. Schiano e Guaccero da parte loro si alternano con gioa e passione ai diversi strumenti; in Quattroetrentacinque una melodia mediterranea emerge da un folto sottobosco di percussioni, un sax suona nel desolato night club di Quell’estate senza te, mentre l’ultima traccia, Come Silenzi, è un risultato straordinario di pura ricerca timbrica.
Fino al trasferimento a Roma la carriera musicale di Schiano si era svolta esclusivamente nel fiorente circuito delle sale da ballo e dei “night club” dell’epoca a Napoli. Nato nel 1933, in una famiglia di tradizione professionale, era sempre stato attratto dalla musica; subito dopo i dieci anni, sfollato da Napoli per la guerra, riceveva lezioni formali di piano da un insegnante religioso, che ben presto si accorse che invece di leggere lo spartito il ragazzo lo ripeteva a memoria dopo averlo sentito: naturalmente non accettò questa insubordinazione e si liberò dell’indisciplinato allievo. Da autodidatta Schiano imbracciò allora la fisarmonica, e fu in grado, subito dopo la guerra, di cominciare a esibirsi come accompagnatore di cantanti. Sulla terrazza napoletana in cui un fornaio la sera organizza trattenimenti, accompagnava una vistosa signora, finta bionda e finta straniera, che guadagnava molto di più degli strumentisti, ma il cui senso musicale è limitato; così il fisarmonicista da dietro gli segnala l’attacco della voce, dopo l’introduzione, con un calcio nel sedere. Vanno molto – all’epoca – i brani americani (Johnny Guitar) e la città è invasa dai V-disc; ci possiamo immaginare con quanta avidità e stupore venga assorbita quella musica dal giovane musicista, ancora alle prese con la fisarmonica. Ben presto però, dato che la luccicante pipa metallica del sassofono lo incuriosisce e oltre a tutto è di moda, molto richiesta dai gestori dei locali, la chiede e la ottiene – grazie ai successi nello studio – in regalo dal padre. E’ il 1957, il sassofono è un contralto da banda, usato. Schiano ha finalmente la possibilità di vederlo da vicino, di capire come fanno i sassofonisti “a fare così tante note con pochi tasti”.
Schiano ha descritto il rapporto con il sax con una frase che vale la pena di riportare: “Lo strumento mi risultava sempre come qualcosa di magico, un prolungamento cromato dell’esofago, che lasciava cantare fuori le cose di dentro”. Si manifesta qui un rapporto con la musica che è viscerale nel senso più pregnante: tornano alla mente le pagine di Barthes dedicate alla grana della voce, “qualche cosa che è direttamente il corpo del cantante, trasportato in un solo movimento alle vostre orecchie, dal fondo delle caverne, dei muscoli, delle mucose, delle cartilagini…come se una sola pelle tappezzasse la carne interna del cantante e la musica che egli canta”. Nell’opposizione teorica tra feno-canto e geno-canto introdotta da Julia Kristeva e presa da Barthes come punto di partenza, il geno-canto è “lo spazio in cui i significati germinano dal dentro della lingua e della sua stessa materialità… un gioco significante estraneo alla comunicazione, alla rappresentazione, all’espressione… non ciò che si dice, ma la voluttà dei suoi suoni significanti”.
La musica di Schiano ha assunto sempre il “genere” come pretesto, criticando l’improvvisazione libera non appena si è costituita in “scuola” salvo ad esserne il più strenuo e coerente praticante e promotore; ha satireggiato il consumo delle melodie standard, per darne poi una memorabile e profondissima lettura (Old Fashioned); ha ostentatamente rinunciato alla “tecnica” ispirando i musicisti tecnicamente più ferrati del jazz italiano, da Massimo Urbani a Bruno Tommaso. Giampiero Cane, con la consueta penetrazione, lo scriveva in altre parole nelle note a “Swimming Pool Orchestra”: “il dibattito che mette fine a Solo ha l’analogo significato di pensiero ridotto a slogan, tale dunque che tutti possano pensarlo… solamente lo scarto individuale conserva senso manifestandosi con abilità affatto singolari … o realizzando un consunto modello immettendovi tale intimità da raggiungere e salvare l’immagine altra”.
L’intimità con lo strumento inizia per Schiano nella sua casa di Napoli quando analizza da solo il sax che ha tra le mani, e trova un suo personale metodo “tecnico”. In quegli anni il jazz a Napoli è ancora quasi sconosciuto, e la parola indica spessola batteria. In un locale si svolge una modesta attività, con qualche orchestrale professionista e qualche americano di passaggio in città. Dopo pochi mesi il primo concerto: è il 21 febbraio del 1958, e il gruppo che deve “aprire” prima della cantante americana Carol Daniell è costituito da Schiano, da due studenti che per arrotondare le entrate suonano basso e chitarra nei night, e da Gegè Munari alla batteria. L’esibizione non è fortunata, anche perchè il rudimentale amplificatore a valvole della chitarra continua a surriscaldarsi, emanando puzza di pesce dalla colla che tiene la stoffa di cui è tappezzato, e a rifiutarsi di fuzionare: il tema di Undecided (titolo quanto mai appropriato) deve essere ripetuto quattro volte. Nel 1958 e 1959 il Jazz Club di Napoli organizza un torneo di jazz, e Schiano – privo di un gruppo – suona con la ritmica messa a disposizione dal club; l’anno dopo incontra il pianista Parente. Dopo l’esibizione a Saint Vincent, nel 1962 una nuova partecipazione al torneo napoletano, la Coppa Vaccaro, e l’esperimento di suonare liberamente viene ripetuto: la registrazione viene pubblicata molti anni dopo e dà modo di apprezzare la salutare diversità di opinioni tra il pubblico.
Nel ’66 Schiano e Franco Pecori, batterista poi passato al giornalismo, pensano di essere pronti a uscire in pubblico, presentando i risultati musicali del loro lavoro. Elaborano un manifesto musicale, nella migliore tradizione delle avanguardie artistiche italiane, e organizzano un concerto al Folkstudio. Il gruppo è completato da Gianni Foccià, contrabbassista professionista, che dopo la lettura del manifesto, in una sala insolitamente piena, si fa prendere dal panico e si rifiuta di suonare. Racconta Mario Schiano “Per fortuna quella sera, appoggiato alla parete, c’era il contrabbassista sardo Marcello Melis, il quale senza dire una parola, limitandosi a fare solo un cenno col capo, salì sul palco e si mise a suonare con noi”. Da questo gesto epico doveva nascere una collaborazione pluriennale, tra le più feconde della carriera del sassofonista.
Il gruppo di Schiano con Giancarlo Schiaffini al trombone si esibisce, imposto a forza dai colleghi al selezionatore Adriano Mazzoletti, anche in un concerto della RAI dedicato al jazz in Italia: come i quattro riempiano i cinque minuti disponibili è documentato su disco. Per tutti gli anni ’60 prosegue una instancabile attività di promozione ed organizzazione musicale: concerti a Roma, la colonna sonora per “Apollon: una fabbrica occupata”, film di Ugo Gregoretti, spettacoli teatrali-musicali con il Canzoniere Internazionale di Leoncarlo Settimelli e il Living Theatre a Urbino. Solo nel 1970 tuttavia dopo alcune registrazioni per la RAI e un primo fallito tentativo con la RCA il Gruppo Romano Free Jazz, con Bruno Tommaso al basso, matura l’idea di autoprodursi un disco: “If Not Ecstatic We Refund” ironico fino dal memorabile titolo e dalla speciale copertina con “la coda”. Anche se musicalmente non si può ancora parlare di una vera e propria progettazione del disco, che rientra più nella categoria della documentazione, la cura complessiva per l’oggetto richiama quella dei musicisti europei già citati, e fa presagire la realizzazione di produzioni discografiche pensate come tali, e non come schegge casuali prelevate da un indifferenziato torrente sonoro. Insieme a Melis Schiano dedica molto tempo alla ricerca sulla musica popolare: da questo lavoro usciranno prima “Sud” e poi “Perdas de Fogu”. I due dischi riflettono decisamente il cambio di leadership: il primo nella sua voluta frammentarietà fa emergere una corrente musicale nuova per il jazz italiano, mentre il secondo non riesce a portare a maturazione una idea di base ancora generica, probabilmente anche a causa di una produzione infelice, vista la casualità con cui vengono sfumate le lunghe suites, per ampi tratti prive di una precisa direzione. L’eccezione è costituita dal brano che dà il titolo all’album, equilibrata ed energetica celebrazione dei patrimoni popolari di tutti i partecipanti, che forniscono impegnati contributi solistici; in questa direzione il lavoro di Melis continuerà poi prima negli USA e poi di nuovo in Europa, con risultati ben più interessanti. Melis inviterà ancora i collaboratori del primo disco (Pullen, Sheila Jordan) e, accanto a altri musicisti come Roswell Rudd e Jeanne Lee, quel Don Moye conosciuto nel 1968 proprio accanto a Schiano nella collaborazione con il Detroit Free Jazz Group, prima dell’ingresso del percussionista nell’ Art Ensemble of Chicago.
A Roma intanto emergono musicisti molto interessanti, e Schiano li valorizza con infallibile istinto: Roberto Della Grotta, Tommaso Vittorini, Massimo Urbani, Maurizio Giammarco hanno grazie a lui le prime occasioni. Il corso di Giorgio Gaslini a Santa Cecilia contribuisce ad aggregare queste forze, e con il pianista milanese Schiano ha un incontro/scontro discografico nel 1974. La metà degli anni 70 vede i primi riconoscimenti: decine di concerti alle feste dei partiti e dei movimenti di sinistra, l’invito ad Umbria Jazz e alla Rassegna di Bologna, la produzione da parte della RCA nella sua serie “sperimentale” dei dischi con Melis. Si svolgono negli stessi anni la felicissima collaborazione con il compositore contemporaneo Domenico Guaccero e la molto meno felice esperienza con il gruppo Spirale, chiusa con un brutto concerto a Gubbio durante Umbria Jazz 1975, sotto lo sguardo severo di Cecil Taylor.
A Penne, in contrapposizione al festival di Pescara, Schiano promuove il primo Controindicazioni, dove il nuovo jazz italiano compie una prima ricognizione delle sue forze, ponendo le basi per la rassegna Nuove tendenze del jazz italiano alla Statale di Milano, di cui restano importanti testimonianze discografiche; è l’inizio della fruttuosa collaborazione con Guido Mazzon (“Progetto per un Inno”, “Gospel”), proseguita fino ad anni recenti (“Effetti Larsen”), mentre l’episodico incontro con Sam Rivers (“Rendez-Vous”) è fonte di virulente polemiche.
“Partenza di Pulcinella per la luna”, la seconda partecipazione di Schiano alla meritoria serie Vista della RCA, è la accurata realizzazione di un progetto ben definito, che ha per fine l’oggetto Lp, in tutti i suoi aspetti. Come la navicella nel viaggio verso la Luna si capovolge quando la gravità del satellite supera quella del pianeta, così capovolgendo il disco toviamo due facciate “opposte” non solo geometricamente ma anche dal punto di vista musicale, con la parte satirico/distruttiva confinata sulla facciata A – ce n’è per l’allora di moda rock-jazz – e quella costruttiva sulla B, con risultati musicali eccellenti, del tutto lontani dal tono satirico dei titoli.
Alain Gerber colse un aspetto essenziale della musica di Schiano fino dal 1972, nella sua recensione del primo disco del Gruppo Romano Free Jazz per il francese Jazz Magazine: “…presenta il tratto originale di lasciare che una eredità venire alla superficie sotto il turbinio dell’anarchia e delle provocazioni. E’ impossibile dire se questa precedenza è sotto accusa, derisa, o se al contrario è rivendicata come essenza, come natura immutabile del del jazz attraverso tutte le sue mutazioni… questa incertezza stimola la curiosità verso coloro che l’hanno creata con il loro disprezzo verso cammini già chiaramente predefiniti.” All’organo, Mario (“Il più divertente organista da pianobar che ci si possa immaginare” scrisse Kevin Whitehead) ricorda Sun Ra (che amava il Crumar Mainman, prodotto in Italia): cantare canzoni tradizionali in stile night-club ha senso solo se visto insieme alla sua musica a forma libera, ed è per natura diverso dalle infinite “rivisitazioni” cui siamo oggi sottoposti.
Schiano ha sempre irritato puristi e uomini di potere. Potenti e puristi jazz, potenti e puristi delle avanguardie. La sua passione per il materiale è sincera: non è un trucco commerciale, non è un paternalismo intellettuale. L’ironia è sempre verso chi tratta la musica come merce, non verso il materiale. Le sue interpretazioni di All The Things You Are e Mille lire al mese sono basate sul peso e sulla storia dei brani, e sono ugualmente sincere.
Ernst Bloch è un’altra rara fonte di riflessioni nell’ambito della cultura “alta” europea sulla vera natura della musica. Nei suoi saggi troviamo una osservazione che si attaglia alla musica di Schiano: “L’ascoltatore profondamente commosso e supremamente innocente deve essere conservato e compreso proprio come è perchè possa emergere come la persona per la quale tutta l’attività ha luogo, al di là della struttura tonale e delle sue leggi, e quindi nel luogo che l’aspetta e che esiste solo per essa” (Saggi sulla Filosofia della Musica, Cambridge U. Press, 1985, p. 130). I compositori europei hanno abbandonato questa ricerca: accecati dai complementari sentimenti di attrazione o di repulsione per le caratteristiche esterne della musica jazz, ne hanno perso di vista l’essenza, così che il giustamente celebrato saggio di Ernest Ansermet dà prova di un livello di comprensione raramente raggiunto in seguito. Acora Bloch: “In questo modo una nuova identità, la combinazione perfetta di divinazione e capacità di unificare, deve anche essere introdotta dietro ogni concezione di forma musicale, istituita ex novo come funzione dell’estetica metafisica, se vogliamo che una esperienza profondamente emotiva sia salvata e consolidata, se la destinazione e il luogo spirituale della musica – che è una lunga serie di eresie sonore – è di arrivare a un’idea a ciò adeguata”. (Ibidem. p. 131)
Il cliché della presunta carenza di tecnica strumentale da parte di Schiano, una delle sue molte eresie che amava sventolare sotto il naso dei puristi, è stata usata per schivare i problemi posti dalla sua musica. L’accusa ricorrente di “non saper suonare il blues”, a confronto delle periodiche lodi rivolte a crudi imitatori di passati stili e musicisti rivela non solo una mancanza di comprensione della musica di Schiano, ma una serie di fraintendimenti di base della musica afroamericana. In mancanza di essa, tali critici non sono ben posizionati per discutere i rapporti tra musica europea e jazz. I musicisti che mettono in discussione confini e concetti vengono sempre affrontati sul piano tecnico: sono incapaci di suonare o dotati di un inutile virtuosismo. Uno schema “a doppio vincolo” applicato a Charlie Parker e Thelonious Monk, ripetuto con John Coltrane e Albert Ayler, riciclato ancora con Evan Parker e Derek Bailey. Incapace di mettere in discussione con la musica il proprio ruolo, il “critico” si rifugia nell’attacco tecnico, apparentemente neutrale, per scappare dai problemi posti dalla musica. Mancanza di tecnica e tecnica eccessiva convergono sempre, in questi attacchi ispirati da una falsa ideologia, nel peccato capitale e indicibile, la mancanza di “swing”.
Nella tradizione delle avanguardie artistiche europee il Gruppo Romano Free Jazz scrisse un manifesto che venne letto prima dell’esordio del gruppo: “La musica del Gruppo Romano Free Jazz è completamente improvvisata, libera da acordi predeterminati, temi, armonie e ritmi. Non c’è divisione tra strumenti solisti e accompagnatori. Da questo concetto di improvvisazione risulterà una ipotesi operativa. Essa sarà basata sull’empatia tra modi espressivi, che terrà conto dell’incrocio delle nostre storie personali. Questi nastri modulari genereranno, per analogia o contrasto, prospettive sonore sempre diverse. … A un orecchio abituato ad ascoltare in modo pigro la nostra musica potrà dare l’impressione di un insensato disordine: ma il confronto è con l’arbitrarietà dell’ “Opera d’Arte” “eterna”, “universale”, “intoccabile”.”
Fedele al suo programma, Schiano è rimasto un disincantato utopista, un rivoluzionario permanente sempre pronto a ribellarsi contro i capi della rivoluzione, in un ambiente in cui anche i riformisti sono merce rara. Un jazzista per le istituzioni classiche, ma troppo incontrollabile per le neonate istituzioni jazzistiche. Operando in maniera precaria sempre al margine dell’accettazione, non è riuscito a costruire una “scoietà alternativa” come l’AACM, l’ICP o il London Musicians’ Collective; il suo contributo, accolto con ammirazione da Mats Gustafsson o John Corbett, in Italia è stato presto e scientemente dimenticato. Addirittura c’è chi scrive ponderose storie del jazz eliminando con maniacale precisione ogni possibile riferimento al suo lavoro.
Una percezione delle sua personalità, accanto alla musica, può venire dalle sue profetiche partecipazioni a film come “Caro Diario”, “Palombella Rossa” e “La meglio gioventù”. Ci manca molto, Mario Schiano, per la sua musica e per il suo inconfondibile umorismo. Ci farebbe crepar di amare risate distruggendo a forza di battute dette nel suo elegantissimo napoletano i musicisti del neo-swing, i pomposi classicisti, i burocrati delle direzioni artistiche – in una parola, la neonata classe dirigente del “jazz” italiano.
DISCOGRAFIA CONSIGLIATA
Tutti i dischi di Mario Schiano sono disponibili per l’ascolto presso il Centro Studi sul Jazz “Arrigo Polillo”; alcune importanti registrazioni sono disponibili anche in Cd.
- – Mario Schiano + Domenico Guaccero + Bruno Tommaso + Alessandro Sbordoni: De Dé (Splasc(h) CDH 510.2)
- – Mario Schiano: On The Waiting-List (Unheard Music Series UMS 235)
- – Mario Schiano: Sud (Splasc(h) CDH 501-2
- – Mario Schiano: Social Security (Victo cd043)
- – Mario Schiano: My Funny Valentine (Splasc(h) CDH 697.2)
BIBLIOGRAFIA
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- – – Recensione concerto, (F. Volpi) Musica Jazz, XVI – 11, Novembre 1960
- – – Recensione concerto, (U. Santucci) Musica Jazz, XXIII – 4, Aprile 1967
- – Recensione concerto, (U. Santucci) Musica Jazz, XXIII – 7, Luglio 1967
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- – Sud, rec. (S. Arcangeli) Musica Jazz, XXIX – 12 (312), Dicembre 1973, p. 36
- – Canto Nero, libro di Giampiero Cane, Guaraldi 1974
- – Mario Schiano con Giorgio Gaslini, rec. (V. Rizzardi) Musica Jazz, XXX – 11 (322), Novembre 1974, p. 40
- – Il caso Schiano, saggio (A. Rodriguez), Musica Jazz XXXI – 6 (329), Giugno 1975, p. 8-12
- – Recensione concerto, (S. Arcangeli) Musica Jazz, XXXI – 7, Luglio 1975, p. 42
- – Recensione concerto, (R. Terlizzi) Coda, n. 140, Agosto 1975
- – Perdas de Fogu – Partenza di Pulcinella per la Luna, rec. (S. Arcangeli), Musica Jazz, XXXI – 10 (332), Ottobre 1975, p. 49
- – Catalogo serie VISTA: Incontro con MS (Franco Pecori); ristampato da Cogno, vedi sopra; note su Partenza di Pulcinella per la Luna (Franco Pecori, Piero Quaglierini); Guida all’ascolto dello stesso disco, di Franco Pecori. Senza indicazioni di data e luogo, metà anni Settanta.
- – Concerto della Statale, rec. (G. M. Maletto) Musica Jazz, XXXII – 6 (340), Giugno 1976, p. 41
- – Progetto per un inno, rec. (M. Piras) Musica Jazz, XXXII – 12 (345), Dicembre 1976, p. 39
- – On The Waiting List, rec. (R. Capasso) Musica Jazz, XXXIII – 6 (351), Giugno 1977, p. 38
- – Mario Schiano con Giorgio Gaslini, rec. Cadence, Settembre 1977, p. 15
- – Gospel, rec. (G. Dalla Bona) Musica Jazz, XXXIII – 11 (355), Novembre 1977, p. 35
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- – A European Proposal, rec. Cadence, Maggio 1980, p. 25
- – Test, rec. Cadence, Ottobre 1980, p. 30
- – Swimming Pool Orchestra, rec. (G. Piacentino) Musica Jazz, XXXVII – 10 (398), Ottobre 1981, p. 47
- – Old Fashioned, rec. (S. Arcangeli) Musica Jazz, XXXVIII – 2, Febbraio 1982, p. 71
- – Storia del Jazz: L’ Europa e l’ Italia, libro di Giancarlo Roncaglia, Marsilio, 1982
- – Out Of Date, rec. (G. Piacentino) Musica Jazz, XL – 3, Marzo 1984, p. 69
- – Mario Schiano, dalla Russia con Amore (R. Capasso), Musica Jazz, XLIII – 11, Novembre 1984, p. 55
- – Facciamo che eravamo negri, libro di Giampiero Cane, CLUEB, 1987
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- – Sud, rec. Cadence, Dicembre 1990, p. 75
- – Unlike, rec. Cadence, Giugno 1991, p. 87
- – Uncaged, rec. (S.G. Biamonte), Musica Jazz XLVIII – 1, Gennaio 1992, p. 72
- – Uncaged, rec. Cadence, Aprile 1992, p. 72
- – And So On, rec. (C. Sessa), Musica Jazz XLVIII – 11, Novembre 1992, p. 74
- – Original Sins, rec. (C. Donà), Musica Jazz XLIX – 1, Gennaio 1993, p. 69
- – Tracks, rec. (S. G. Biamonte), Musica Jazz L – 4, Aprile 1994, p. 75
- – Tracks, rec. (P. Renaud) Improjazz 4, 4/94, p. 16
- – “Instabile” (G. Vigna), Musica Jazz L – 7, Luglio 1994, p. 14
- – Meetings – Tracks, rec. (A. Bartlett), Cadence, 21 – 6, Giugno 1995, p. 93
- – Intervista (L. Onori) Musica Jazz, LI – 8/9, Ag./Sett. 1995, p. 32 – 34
- – Original Sins, Unlike, Tracks, rec. (S. Broomer), Coda 265, Genn./Febb. 1996, p. 22
- – Mario Schiano alle origini del movimento free in Italia, Tesi di Laurea in civiltà musicale afro-americana, Francesca Valente, 2000
- – Un cielo di stelle, Parole e musica di Mario Schiano, libro di Pierpaolo Faggiano, Il manifesto libri, 2003
Francesco Martinelli, Centro Studi sul Jazz “Arrigo Polillo” ©2010