Un tipo simpatico

Credo che siano ben pochi i jazzofili europei (parlo di coloro cha bazzicano i musicisti di jazz) che non custodiscano gelosamente, fra i loro ricordi, quello dell’incontro con Roy Eldridge. E il ricordo ha quasi sempre un lato ridanciano. Il fatto è che Roy è un uomo socievole, un compagnone che invoglia alla manata sulla spalla: durante i suoi più o meno lunghi soggiorni europei ha stretto amicizia con l’universo intero.
il suo non è, si badi, un comportamento politico (politica era la cordialità di Armstrong, che recitava benissimo la parte del sempliciotto di New Orleans); Roy è un bonaccione per davvero, senza per questo essere affatto uno sciocco.
la prima volta che lo incontrai non era proprio nella compagnia ideale. Con lui erano Benny Goodman, temuto e scostante «Principale»
– anche per Roy – due ragazzi come Eddy Shaughnessy e Dick Hyman, e Toots Thielemans. Fu proprio Thielemans che invitò noi, jazzofili milanesi, a fare la conoscenza di Roy. «Questo è un tipo simpaticissimo», mi disse in un orecchio, indovinando la mia perplessità dinanzi a quella combriccola così malamente assortita. Quando poi, nella stessa sera, Eldridge fu messo a confronto con un più che rispettabile piatto di spaghetti e con un fiaschetto di Chianti, fu evidente a tutti che sapeva apprezzare le cose buone della vita. (Le volte, invece, che mi è capitato di vedere i musicisti di jazz ingurgitare insieme spaghetti e Coca Cola, per passare poi subito al gelato misto…) «Io sono stato allevato in una famiglia di italiani, che mi hanno tirato su come un figlio», mi spiegò in seguito, e tutto allora fu chiaro. Non approfondii, in quel momento, ma sono pronto a scommettere che quei tali italiani erano napoletani.
Dei napoletani Roy ha la pronta intelligenza, la vitalità da scugnizzo, il gusto per lo sfottò salace, e l’amore per tutto ciò che di vivo il buon Dio ha messo su questa terra.
La musica per lui è una questione d’istinto ed è inutile provarsi a ragionar con lui di stili, di scuole e di derivazioni. «I like all good music: music is good or bad» mi rispose quando cercai di interrogarlo sulle sue preferenze: «Mi piace tutta la buona musica; la musica può essere solo buona o cattiva», proprio così. Semplice, ma giusto, non c’è che dire. E quando tentai di avere da lui qualche ragguaglio sul suo stile, sui suoi ispiratori e insomma tutte quelle cosette di cui i jazzofili sono ghiotti, mi sentii rispondere con la massima tranquillità: «Well, you know how I blow my horn…». A che pro discutere infatti? io sapevo come Roy «soffia il suo corno» (i jazzmen americani dicono così) e tanto doveva bastarmi. Quando però gli chiesi che effetto gli faceva vedere che tutti i giovani trombettisti, a cominciare da Dizzy Gillespie, derivavano da lui, accettò l’implicita osservazione, e rispose, ridendo: «Be’, mi sento una specie di nonno…»
Un simile personaggio, naturalmente, doveva trovarsi magnificamente in Europa, che visitava allora per la prima volta. Ne ebbi conferma quando, prima di salutarlo, gli chiesi che programmi avesse dopo il suo ritorno in America. la risposta fu rapida ed esplosiva, come una fucilata: «Come back», tornare. Seppi poi che a Parigi, pochi giorni dopo, aveva perfezionato ulteriormente il suo piano: invece di fare un inutile viaggio di andata e ritorno, salutò il suo caporchestra all’aeroporto, deciso a rimanersene in Europa fina allo scadere del passaporto.
Ripartì per l’America esattamente un anno dopo, giusto alla scadenza del permesso di soggiorno. E quando sbarcò a New York ne disse di cotte e di crude contro gli americani: in Europa sì che si capisce e si scolta il jazz; laggiù gli uomini sono davvero considerati tutti uguali, non come qui, negli Stati Uniti, dove se ti capita di girare con un’orchestra bianca ti tocca dare ogni sera la buona notte ai colleghi per andartene tutto solo in un alberghetto il cui ingresso non sia vietato ai negri!
Questo era il succo di una «storica» intervista rilasciata da Roy, retour de Paris, a un redattore del «Down Beat». Ma giurerei che l’intervista era stata pubblicata in edizione purgata: castigatezza di linguaggio a parte, non è possibile che Roy non abbia almeno accennato al vino e alle donne di Francia e d’Italia, le cui qualità, diciamo termiche, mi parvero da lui apprezzate nel loro giusto valore.
Non so quante volte, negli anni successivi, ho incontrato Roy in Italia o in qualche festival del jazz tenutosi oltre confine: non l’ho trovato cambiato. Se non nei capelli, che ora sono quasi del tutto bianchi. Anche la tromba è quasi immutata rispetto a ventisette anni fa, ed è tutto dire perché spesso, da quella tromba esce del fuoco.