Si decolla

Se dovessi indicare l’anno in cui il jazz in Italia «decollò» non esiterei a scegliere il 1956. Fu quello l’anno in cui arrivarono nel nostro paese Chet Baker, Big Bill Broonzy, il sestetto di Gerry Mulligan, la grande orchestra di Lionel Hampton, il complesso di Kid Ory; fu l’anno in cui tornò Stan Kenton, l’anno in cui furono organizzate delle importanti manifestazioni concertistiche a Milano (con una rassegna di orchestre di stile tradizionale) e a Roma (con un festival del jazz durato addirittura quattro giorni). Fu ancora quello l’anno in cui prese il via il Festival del Jazz di Sanremo, il primo in Europa che avesse carattere continuativo: Fu infine l’anno in cui fu presentato, a Milano e poi a Torino, lo spettacolo «Birdland 1956».
Quest’ultimo concerto ebbe un’importanza particolarissima per diversi motivi: perché presentò per la prima volta in Italia il Modern Jazz Quartet e solisti insigni come Miles Davis e Bud Powell e ripresentò Lester Young; poi perché fu il primo concerto organizzato, a nostro completo rischio, da me e da alcuni amici (Testoni, Maffei ed Ettore Balli), il che significò l’affrancamento definitivo dagli impresari professionisti (che col jazz perdevano irrimediabilmente denaro e poi se la prendevano con noi che li avevamo spinti in certe avventure) e infine perché, col successone che ottenne, soprattutto per merito del Modern Jazz Quartet, ci diede la prova che il jazz poteva ormai fare affidamento, anche in Italia, su un pubblico abbastanza numeroso.
Io tuttavia ricordo quel concerto soprattutto per altri motivi: per le amarezze che ci procurarono alcuni artisti, in particolare per la visione delle misere condizioni di salute di Bud Powell, già completamente fuori di senno.
Le prime avvisaglie che le cose non sarebbero andate proprio lisce le avemmo alla stazione di Milano, quando i due francesi che avrebbero accompagnato Powell (il bassista Pierre Michelot e il batterista Christian Garros) ci avvertirono che il celebre pianista aveva bevuto troppo e non avrebbe quindi suonato bene. Poco dopo successe il finimondo: noi avevamo prenotato le camere per i nostri ospiti in un ottimo albergo non troppo distante dalla stazione, ma ci rendemmo conto presto (vedendo i primi solisti tornarsene nella hall con la valigia in mano) che la sistemazione da noi trovata non era di loro gradimento. «Hotel Duemo», strillava come un’aquila Buttercup, l’ineffabile compagnia di Bud Powell, che evidentemente aveva sentito parlare dell’Hotel Duomo da qualche musicista venuto precedentemente a Milano; e »Hotel Duemo» fu, con immaginabile disappunto del personale dell’albergo già prenotato, con cui noi non sapevamo come scusarci.
Andò avanti in questo modo, fra incidenti e contestazioni di ogni genere. Soprattutto Powell, che ancora non conoscevamo, fu protagonista di incresciosi episodi. A Milano vendette gli autografi per altrettanti bicchieri di birra (e firmò moltissimo); a Torino a un certo punto raccolse a uno a uno tutti i foglietti che i cacciatori di autografi gli porgevano e si diresse con quelli verso la toilette. E ne fece delle altre: ci fu riferito che a Milano, in via Manzoni, cadde pesantemente a terra a causa delle condizioni pietose in cui si trovava.
Altri problemi ci causò Miles Davis, che si comportò con l’arroganza che avremmo ben conosciuto in seguito. Furono tanti i piccoli guai che la troupe ci procurò che il sempre compìto John Lewis, leader del Modern Jazz Quartet, volle alla fine dedicarmi una fotografia ringraziandomi per iscritto per la «pazienza» e la «gentilezza» di cui, a suo dire, avevo dato prova.
A parte il MJQ, chi non ci causò alcun problema in quell’occasione fu Lester Young, di cui pure, conoscendone le bizzarrie (e l’inveterato alcolismo), diffidavamo. Lester era appena uscito da una di quelle ricorrenti crisi, psicologiche e artistiche, che hanno costellato la sua carriera; aveva trovato un buon manager, un certo Carpenter, e soprattutto la fiducia nelle sue risorse di musicista. Quel giorno infatti suonò molto bene, al punto che io sentì il dovere di complimentarmi con lui. Lo resi felice, letteralmente: andò a chiamare carpenter per fargli ascoltare, dalla mia voce, il mio positivo giudizio, che mi chiese di ripetergli, e poi si allontanò ridendo beato, camminando a rapidi passettini, come faceva sempre. Non ricordo se anche in quell’occasione avesse ripetuto la frase con cui di solito si congedava dai suoi interlocutori: «Pres goes» «Il Presidente (era lui il Presidente dei tenorsassofonisti) se ne va». Parlava sempre, o per meno molto spesso, in terza persona, un po’ perché era veramente un uomo strano, un po’ perché voleva essere giocoso.
Ancora mi domando come potesse suonare tanto bene quel giorno, perché Lester non era meno alcolizzato di Bud Powell: pasteggiava a whisky (a cui raramente aggiungeva qualcosa di solido) ed era costantemente brillo.
Quelli del Modern Jazz Quartet erano diversi da tutti, sono sempre stati diversi. Forse John Lewis, oltre che beneducato e colto, è un uomo un poco snob, come qualche suo collega assicura, ma è ugualmente un grande piacere avere a che fare con lui. E’ un peccato che il Modern Jazz Quartet si sia sciolto (dopo ben vent’anni di continua attività) perché è certo che chi ne ha sofferto maggiormente è proprio lui, John, che nel quartetto aveva proiettato tutta intera la sua personalità e le proprie concezioni musicali, su cui non sembrava disposto a transigere.
Non c’è molto da dire sugli altri concerti milanesi, che furono più o meno buoni, ma che non si fanno ricordare per qualche particolarità; c’è molto da dire, invece, sul festival del Jazz di Sanremo, che prese il via alla fine di gennaio di quel 1956 e che si concluse dieci anni dopo, dopo undici edizioni.