Stan e Woody

Negli anni a cavallo del 1950 Stan Kenton fu forse il più osannato bandleader d’America. Sembrava (a certi americani) che le sue orchestre dovessero causare una rivoluzione nel mondo dei suoni, fare apparire il jazz e la musica sinfonica europea cose sorpassate.
In Europa si era più prudenti, e non si perdeva occasione per gettare acqua sul fuoco dell’entusiasmo dei «Kenton fans»: semmai si esagerava in senso opposto, perché Kenton veniva descritto come un blagueur un poco comico e molto presuntuoso, di cui non si dovesse tener conto.
Poi Kenton arrivò, con la sua poderosa orchestra, e mise d’accordo tutti, o quasi. Anche perché la formazione che portò in Italia, nel 1953, era la migliore che avesse mai avuto, e anche la più jazzistica: c’erano Lee Konitz, Zoot Sims, Frank Rosolino, Conte Candoli e tanti altri jazzmen da tutti rispettati. Mai vista o sentita un’ orchestra altrettanto impressionante per la sua precisione.
Quanto a lui, Kenton, apparve subito assai diverso dal fanfarone che la pubblicità americana voleva farei credere che fosse. Non aveva certo l’aria di una viola mammola ma non sembrava affatto perduto in irrealizzabili sogni di grandezza. Sembrava che avesse i piedi ben piantati per terra, invece; per quanto poi riguardava la musica, e più in particolare il jazz, le sue idee erano perentorie ma niente affatto blasfeme.
Si è parlato molto, anche da parte delle sue mogli (tutte divorziate) e dei suoi musicisti, del «carisma» di Stan Kenton, e io sono pronto a riconoscerne resistenza. Se poi dovessi cercare di analizzarne le componenti, azzarderei che quel carisma è fatto in parti uguali di fascino, di autorità, di entusiasmo (però non smodato come ci hanno fatto credere) e di «umanità». Quest’ultima è la dote che colpisce subito, a riprova di quanto poco risponda al vero la sua immagine pubblica.
Nella seconda metà degli anni cinquanta, la popolarità di Kenton ebbe un tracollo, e l’uomo ne soffrì: si era assuefatto alle scene di entusiasmo che sempre avevano accompagnato le sue uscite in pubblico negli anni d’oro, ed ebbe difficoltà ad adattarsi alla nuova situazione. Tanto più che la sua vita famigliare, sempre sfortunata, non poteva offrirgli alcun compenso per ciò che aveva perduto.
Cominciò nelle sue orchestre la girandola dei solisti, che da un certo momento in poi non furono più reclutati fra le stelle del jazz ma, per ragioni di economia, tra i giovanissimi usciti dalle orchestre delle università o dalle scuole musicali: tutti tecnicamente ineccepibili ma anche tutt’altro che personali. Lui ebbe il torto di non capire (o di fingere di non capire) la differenza: «Il loro unico torto» mi disse un giorno parlando dei suoi nuovi solisti è di essere giovani e quindi poco conosciuti: all’inizio erano sconosciuti anche i Lee Konitz e i Frank Rosolino che oggi vi sembrano tanto bravi». (Già, però si era capito subito che questi avevano della personalità; dei suoi. giovani si capiva esattamente il contrario. )
La cosa più singolare in Stan Kenton è che, nonostante il gran parlare che fece di «progressismo», si tratta di un tremendo conservatore. (« E difficile trovarsi d’accordo con lui» mi aveva avvertito Norman Granz «perché è sempre così a destra’!) Del resto, a ben guardare, era conservatrice anche la sua musica che veniva definita «progressive». Perché non c’è nulla di più conservatore, per un musicista di jazz, che cercare di gettare un ponte – come si usa dire – verso la musica classica; cercando in questa i propri titoli di nobiltà. Come lui fece.
Accanto a quello di Stan Kenton, nelle storie del jazz si fa spesso il nome di Woody Herman. Si spiega: i due hanno diretto le più rispettate orchestre di jazz bianche degli ultimi trent’anni, spesso hanno utilizzato gli stessi solisti, e in anni recenti (diciamo: dal 1955 in poi) hanno seguito strade parallele. Senza dire che sono coetanei e si sono visti intorno la stessa generazione di fans.
Tuttavia i due uomini non potrebbero essere più diversi. Mentre Kenton ha il «carisma», Herman non ne ha punto: ha l’aria dell’uomo della strada, e magari del burocrate. Come conversatore è deludente, anche perché parla con una voce opaca, del tutto priva della showmanship kentoniana; e se parla di musica, ne parla come di un mestiere noioso come un altro. Non vi coinvolge, non vi fa innamorare dei suoi progetti, a cui del resto accenna senza ombra di entusiasmo.
Eppure, sotto l’apparente apatia di Herman ci deve essere proprio il suo contrario, e cioè l’entusiasmo e la forza di volontà. Tutta la sua biografia sta a dimostrarlo. Quella sua capacità di ricostruire ogni volta da zero la propria orchestra, disfatta troppe volte dalle defezioni in massa dei suoi uomini; quella sua continua attenzione per le giovani leve del jazz; la sua capacità di rinnovare radicalmente il proprio linguaggio orchestrale a intervalli più o meno lunghi; il suo fiuto per i nuovi talenti e per i mutamenti di clima nel mondo del jazz: tutte queste doti, che Woody Herman possiede in misura straordinaria, contraddicono l’aspetto dimesso e ordinato (da «funzionario» , per usare una definizione di Norman Granz) che l’uomo presenta.
Forse il suo ideale di vita è quello dell’«uomo in grigio», del businessman: «lo dirigo un’orchestra per hobby» mi disse un giorno. «In realtà il mio vero mestiere è quello dell’uomo d’affari. Mando infatti avanti una fabbrica di scarpe.» (Mi ricordai, sentendogli dire questo, dell’attenzione che aveva riservato alle vetrine dei più eleganti negozi di scarpe: avevo notato che prendeva sempre buona nota dei prezzi, anche se poi non comperava nulla.) A differenza di Kenton, che vi rispetta come interlocutore e che è sempre pronto a imbarcarsi in lunghe discussioni con voi, Herman è un pessimo conversatore quando si tratta di musica, e perde la pazienza se viene contraddetto.
E’ strano: io amo la musica di Woody Herman assai più di quella di Kenton, però, per quanto riguarda gli uomini che la fanno, le mie predilezioni si capovolgono. Anche perché Kenton, tutto sommato, è più genuino: un giorno mi raccontò che la prima volta che incontrò Armstrong in carne e ossa fu lì lì per svenire.