
Mulligan
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Quel pomeriggio di domenica 26 febbraio 1956, al Teatro Nuovo di Torino, pareva di essere alle assise del jazz dell’Italia settentrionale. Da Milano tutti coloro che non si erano accontentati della breve esibizione del sestetto di Gerry Mulligan al Teatro della TV del giorno precedente, o della pur entusiasmante jam session notturna alla Taverna Messicana (regno di solito del gruppo di Basso e Valdambrini, ma aperto a chiunque facesse del jazz, allora) si erano trasferiti in macchina, in treno, in pullman; saranno stati oltre duecento gli appassionati e i musicisti milanesi arrivati a dar manforte ai colleghi – di passione o di professione – torinesi, e non erano davvero pochi coloro che avevano fatto un viaggio ancora più lungo.
Quella volta il commento degli spettatori, ivi compresi gli esperti riconosciuti, fu unanime: «E’ il più bel concerto che abbia mai ascoltato», diceva ciascuno, senza essere contraddetto.
Confesso che anch’io non mi ero aspettato tanto. Conoscevo Mulligan come un musicista geniale, e non vi era incisione che non avessi degustato e ammirato; ma non potevo prevedere che avrei ricevuto da quel giovanotto, allora ventinovenne e nel pieno della sua creatività, un impressione così forte.
Il suo, anzitutto, è veramente un concerto, a dispetto della trasandata nonchalance (non priva di arguzia, però) con cui Gerry e i suoi si presentano e si muovono sul palcoscenico. Non c’è in loro nessun desiderio di dare spettacolo, nessuna tentazione di strappare l’applauso agli sprovveduti con quegli espedienti a buon mercato di cui anche i più grandi jazzmen abusano; e neppure l’ombra di quel pur legittimo dolus bonus dei musicisti che si usa chiamare effetto. Mulligan fa della musica e basta, e la fa senza sussiego, con umiltà quasi, ma con dignità. Ha una personalità molto spiccata, ma non la ostenta in uno show, come tanti altri fanno; la rivela soltanto attraverso la voce del suo strumento e di quello dei suoi collaboratori.
Come tutti i grandi del jazz Gerry vive in una sua esclusiva dimensione musicale in cui imprigiona tutti coloro che gli si affiancano, le cui doti migliori sa porre mirabilmente al proprio servizio. Pur essendo un brillante solista, non si pavoneggia in lunghi monologhi, che non gli bastano: la sua voce strumentale è semplicemente il paradigma, la scarnificata espressione di un mondo musicale che si esprime compiutamente soltanto attraverso la polifonia. E tuttavia, in quel suo personalissimo modo di articolare il discorso solistico col sassofono baritono, sono già contenuti, in nuce, il sapore e le regole, lo stile insomma, delle sue composizioni e dei suoi arrangiamenti. (Che poi sono al oro volta dilatabili quasi a volontà: dal quartetto Mulligan è passato al sestetto e poi alla grande orchestra, sempre seguendo la stessa strada.) La sua musica è casta eppure frizzante, a tratti beffarda e clownesca, e talvolta invece marziale e austera, ma sempre controllata e distorta attraverso il gusto per la caricatura. E’ una musica in cui l’effetto più prezioso, prelibato, è ottenuto sempre con grande economia di mezzi espressivi. (Di questo Mulligan offre una spiegazione «Io sono un compositore, non un arrangiatore», dice.)
Conoscevo già, del sestetto di Mulligan, un disco registrato alcuni mesi prima all’Università di Stockton, in California. Si trattava di un buon disco, che tuttavia non lasciava prevedere che il sestetto potesse diventare qualcosa di più di un ampliamento dei ben noti quartetti. In quel sestetto di Mulligan mi è sembrato invece di indovinare qualcosa in più: un sale nuovo, un sapore amaro e disincantato, che mi ha fatto venire in mente più di una volta lo Stravinsky di Petrouchka. Certo gusto per il clowning, che diventa arte elegante attraverso la stilizzazione, certo indulgere allo sberleffo improvviso (un esempio: la ricorrente citazione della Marcia dei gladiatori, che è poi quella tal marcetta che le bande dei circhi equestri intonano quando è l’ora dei pennacchi e delle parate) fanno proprio venire in mente Stravinsky.
Attenti però: Mulligan è un uomo del jazz, un giovanotto che si veste ai grandi magazzini e che pasteggia spesso in cafeteria a base di hamburgers, e magari beve troppo a tutte le ore. Conosce la musica classica europea, e naturalmente la rispetta, ma non la vagheggia e non la scimmiotta. A Milano fece autentiche acrobazie per assistere almeno all’ultimo dei balletti che quella sera si rappresentavano alla Scala, ma poi, ancora in smoking, si immerse nella spaventevole calca della taverna Messicana per partecipare a una furibonda jam session con Zoot Sims e i suoi ritmi, che andò avanti tutta la notte. Se però non è e non sarà mai un musicista togato, Mulligan non è nemmeno un jazzman focoso e sudante, di quelli che «scaldano», che «soffiano» e che fanno saltare.
Da quel poco che potei capire in quei giorni, osservandolo durante le prove e scambiando con lui qualche chiacchiera, ebbi l’impressione che Mulligan fosse un uomo di notevolissima intelligenza e anche di forte carattere, che sa perfettamente ciò che vuole e ciò che vale. Coi suoi uomini e con sé stesso è musicista esigentissimo, e con gli altri è estremamente scrupoloso. L’ho visto esercitarsi sul sassofono, prima di ogni concerto, per una buona mezz’ora, e la sola intonazione degli strumenti è un’operazione che prende a lui e ai suoi uomini una decina di minuti ogni volta. Non per questo Mulligan è un uomo pedante: al contrario dimostra di possedere uno spiccatissimo senso dell’humor che mai lo abbandona.
Lo stesso uomo dal volto ascetico e però giovialmente rubizzo, su cui irride una chioma color oro vecchio, si ritrova sul palcoscenico. La musica si identifica così con l’uomo: lo imita e lo esprime. Il suo gusto per la battuta, più bonaria che caustica, trova ora la sua espressione più naturale attraverso il sax e i suoi arrangiamenti. La fermezza del suo carattere (forse meglio: la sua caparbietà) si rivela nella disciplina del suo sestetto, in cui Bob Brookmeyer, i butirroso trombonista che pare uscito da un’accademia militare prussiana, esercita le funzioni di comandante in seconda.
Non si fanno complimenti o cerimonie sul palcoscenico, con Gerry mulligan: si apre il sipario e il leader, che non si vale neppure dell’elementare accorgimento di entrare da solo, per strappare l’applauso d’obbligo, annuncia semplicemente il titolo del primo pezzo, e il concerto comincia.
A Torino, quel giorno, vengono sgranati uno dopo l’altro i pezzi più celebri del repertorio mulliganiano: salvo quattro o cinque standard (come My Funny valentine, Sweet And Lovely, Makin’ Whoopee) sono quasi tutti di sua composizione : da Soft Shoe a Walking Shoes, a Bernie’s Tune, Ontet, Westwood Walk, I Don’t Know How ecc.
Si vede subito che Mulligan, anche come solista, sovrasta di parecchi cubiti i suoi pur bravi compagni, e che dopo di lui è Brookmeyer che tiene il campo. Gli altri sono Zoot Sims, Jon Eardley, trombettista, Bill Crow, contrabbassista, e Specs Bailey, batterista.
Non è giudicando uno a uno i suoi solisti che si coglie il valore del sestetto di Mulligan, ad ogni modo. E’ il gioco d’assieme, sono i deliziosi contrappunti, gli impasti pieni di sapore, la grazia e l’originalità di certi passaggi e di certe soluzioni, il peculiare, prelibato gusto melodico, armonico e ritmico, il relax insinuante e l’urgenza di ogni esecuzione, la squisita musicalità di ogni arrangiamento, che incantano ed entusiasmano.
Ho cavato le righe che precedono da una nota che scrissi, a caldo, dopo il concerto torinese di Mulligan. Oggi sarei più cauto, perché sono più smaliziato. Quanto alle mie supposizioni sulla fermezza di carattere dell’uomo Mulligan, che in seguito ho potuto conoscere bene, non so se ci avevo azzeccato. Forse vent’anni fa e passa il mio amico era solo più «duro», più irascibile di quanto non sia oggi.
In verità, anche se come musicista pare aver perduto parte dell’originario smalto, il Mulligan degli anni settanta è un uomo assai più amabile di quanto non fosse quello del suo periodo d’oro. E’ divenuto, tanto per dirne una, più generoso e anche più «umano». Ed è diventato un conversatore piacevole ed interessante, perché è un acuto osservatore del mondo in cui viviamo.
Ogni tanto però perde le staffe, diventa rosso come un tacchino e strapazza la prima persona che gli capita a tiro. Qualcuno non sa perdonargli certi scatti che, a chi conosca anche l’altro Mulligan, possono fare venire in mente il caso del dottor Jekyll e di mister Hyde.