«Lady Day» protestata

Billie Holiday capitò a Milano nel novembre del 1958, e cioè verso la fine della sua tribolatissima esistenza. E qui fu umiliata come non le era capitato mai nel corso della sua carriera di cantante.
Ebbe la disgrazia di essere scritturata da un impresario che trattava per lo più numeri d’attrazione per gli avanspettacoli e più in generale per lo showbusiness minore. Costui, che probabilmente non sapeva bene chi fosse, la mise nel cartellone del cinema Smeraldo (un teatrone frequentato da un pubblico popolare) insieme a giocolieri, fantasisti e così via. C’era anche Fausto Cigliano.
Non so in quanti andammo ad ascoltarla la prima sera: certo eravamo in pochissimi in teatro a sapere chi fosse Billie Holiday. Gli altri del pubblico pensavano di trovarsi dinanzi a una delle tante fasulle «attrazioni internazionali» che negli spettacoli dello Smeraldo di sprecavano.
Per quanto ricordo Billie cantò pressappoco come faceva sempre nei suoi ultimi dischi: non era più, beninteso, la favolosa “Lady Day” di Strange Fruit, ma era pur sempre una più che notevole cantante di jazz. Fatto sta che il pubblico non la capì affatto. Ecco come io riferii i fatti su «Musica Jazz»: «Quando è entrata in scena Billie Holiday e ha iniziato a cantare accompagnata dall’eccellente pianista Mal Waldron e da un’orchestrina di fossa su cui è persino inutile infierire, è successo il finimondo. La voce acre, le inflessioni volutamente distorte di Billie sono state scambiate per il farfugliamento di un’avvinazzata: si è capito subito che non sarebbe stato possibile giungere al termine del «numero» e men che meno della scrittura. Billie aveva appena terminato la quinta canzone che fu pregata, dal presentatore, di lasciare il palcoscenico (su cui non ricomparve più perché fu protestata): al pubblico fu detto che «non stava bene».
I più accesi jazzofili milanesi non si dettero pace per quanto era accaduto. La sera dopo tre o quattro suoi ammiratori, tra i quali c’ero anch’io, si recarono all’Hotel Duomo, Billie era alloggiata, per confortarla in qualche modo e per offrirle qualche distrazione.
Lei ci fu riconoscente e accettò volentieri la nostra compagnia per la serata. L’accompagnammo alla Taverna Messicana per sentire un po’ di jazz nostrano, poi andammo tutti a casa di Mario Fattori, pubblicitario innamorato del jazz, a bere qualcosa e a chiacchierare.
Billie, si sa, era schiava delle droghe pesanti, e non era di grande compagnia: di tanto in tanto la sorprendevo a fissare intensamente il vuoto o qualche punto del muro. Spesso, ascoltando la musica degli altri (quella del complessino della Taverna Messicana, oppure un disco di Sinatra, che volle ascoltare a casa di Fattori), la riprendeva subito per canticchiarla a sua volta, distorcendone la melodia in quella sua inconfondibile maniera. Per il resto, rispondeva alle domande che le venivano rivolte, ma non faceva certo conversazione. Era una donna amara, risentita: non ricordo di averla mai vista sorridere.
Penso che sia stata quella sera un poco lugubre a dare a Fattori l’idea di organizzare per lei, insieme a Pino Maffei, uno spettacolo riparatorio a cui potesse assistere la fine creme degli appassionati del jazz milanese. Comunque sia, pochi giorni dopo i due affittarono il Gerolamo, un minuscolo teatrino destinato per lo più – allora – agli spettacoli di marionette, e fecero passare la voce tra gli amici.
Quella sera le strutture del teatrino furono messe a dura prova dalla folla che lo riempì: eppure le balconate «a prova di bambino» ressero bene. Quanto a Billie, si impegnò a fondo, e diede uno splendido, commovente, recital. Il pubblico le tributò ovazioni trionfali. In quel teatrino così piccolo ciascuno aveva l’impressione di poterla abbracciare. E sembrava che volesse farlo.
Sei mesi dopo, o giù di lì, ci giunse la notizia che Billie era morta, nel letto di un ospedale di New York. C’era un poliziotto a sorvegliarla, fuori dalla sua camera.