
Garner dal vivo
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Per ascoltare Erroll Garner, la prima volta, dovetti andare a Lugano, dove allora, nel 1966, i concerti di jazz erano abbastanza frequenti.
Che cosa mi aspettavo? Non certo delle sorprese. Garner ha sempre suonato seguendo delle formule collaudatissime, familiari da almeno trent’anni a chi si occupi di jazz. Mi aspettavo dunque di incontrare quelle formule, e di passare in loro compagnia una piacevole serata. Se poi ascoltandolo dal vivo, avessi potuto, come era accaduto spesso in passato per tanti musicisti, migliorare il mio concetto su di lui, tanto meglio.
Mai avrei invece immaginato che non sarei stato capace di resistere fino in fondo alla sua esibizione, e che, quando ancora il pianista imperversava facendo – tra il divertimento degli squares e le proteste degli intenditori – il clown con Rachmaninoff, mi sarei ritrovato nell’atrio del Teatro Kursaal, con altri appassionati di vecchia data, a scambiarci dei commenti disgustati e increduli.
All’inizio non era sembrato che le cose sarebbero andate tanto male. Accompagnato dai fidi – ma mediocri – Eddie Calhoun, contrabbasso e Kelly Martin, batteria, che erano con lui da anni, Garner aveva cominciato a passare in rassegna delle ballads di successo, suonando con vigore nel suo stile abituale, che però era apparso subito più carico, più enfatico, più «furbo» del solito.
Il tocco era un poco greve (la sinistra era addirittura martellante), ma lo swing era intenso; era chiaro che tutto era routine, che tutto era spettacolo, che le risatine del bassista e gli stupori del batterista erano finti, ma quasi tutto passava. E qualcosa si ascoltava molto volentieri.
I trucchi (i gimmicks, direbbero gli americani) erano comunque molti e anche abbastanza risaputi, e certi strimpellamenti a due dita parevano destinati ai minori. Il guaio era che col passare dei minuti i trucchi s’infittivano, e diventavano più triviali, le soluzioni si ripetevano, la delusione e il fastidio degli ascoltatori non sprovveduti aumentavano, mentre aumentavano gli applausi degli altri.
Si capì presto che Garner era, a ben guardare, solo un super-pianista da bar, abituato a carezzare il pubblico per il verso del pelo; uno di quei musicisti che sanno bene che una smorfia a un certo momento fra scattare una certa molla e fa scrosciare l’applauso. Poi apparve sempre più chiaro che ciò che premeva a Garner era solo il successo (il successo qui ed ora): se ne ebbe la certezza quando si mise a strapazzare, emettendo un fastidioso e altissimo muggito, dei pezzi tanto belli come Caravan o Summertime, o canzoni di grande successo come Hello Dolly, o le bosse nove.
A un certo punto si sentì un terribile boogie woogie, e poi, l’ho già detto, un clownesco concertino su musica di Rachmaninoff, col batterista che fingeva di suonare il violino usando le bacchette, il bassista che faceva il «bovero negro» e così via, fino a far venire al pubblico il dubbio che il jazz non fosse una cosa seria.
Fino a che punto questa scandalosa resa di Erroll Garner ai gusti del grosso pubblico si dovesse a lui oppure alla sua manager, Martha Glaser, non ho mai capito. Certo è che la Glaser aveva per lui un culto fanatico, e fece di tutto per sostenerne e accrescerne il successo popolare. Quando si trattava con lei, per scritturare il suo amministrato (io lo scritturai in seguito per un concerto al Lirico di Milano, dove le cose andarono molto meglio che a Lugano), si veniva intrattenuti a lungo sulle virtù del pianista. Il tutto nel tono confidenziale di chi sottintende: «Tu e io sappiamo benissimo queste cose».
Un giorno, Norman Granz, che la conosceva bene (era stata, ai suoi tempi, sua segretaria), mi disse: «Io mi domando che cosa farebbe Martha Glaser il giorno che Garner dovesse morire. Credo che il giorno dopo si leggerebbe sui giornali che si è suicidata».
Non è stato così: Garner è morto, ma Martha Glaser è viva. Ma è probabile che non sappia bene cosa fare.