
I grandi della batteria
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Elvin Jones capitò nello stesso Teatro dell’Arte nello stesso periodo. faceva parte del quartetto di John Coltrane.
Penso che Elvin abbia creato molti problemi a Coltrane, considerato che era costantemente ubriaco. A un certo punto, dovette persino essere sostituito nel quartetti da Roy Haynes, per sottoporsi a una lunga cura disintossicante da non so quale droga. Coltrane però lo lasciava fare, sia perché era tutt’altro che un caporchestra autoritario, sia perché Elvin, dopotutto, riusciva sempre a suonare splendidamente.
Solo una volta, per quanto mi riguarda, fece cilecca: nel 1968, durante uno dei festival organizzati da me e Maffei al Lirico. Era arrivato assieme ad altri batteristi di fama: Max Roach, Sunny Murray e Art Blakey, i quali avrebbero dovuto animare con lui, un intero concerto, sia suonando uno dopo l’altro in una di quelle «battle of drums» che tanto piacevano al pubblico americano (lo spettacolo veniva importato così com’era), sia esibendosi, alcuni, coi propri complessi. Avevano con sé il proprio gruppo sia Elvin Jones che Art Blakey, che presentava allora, per la prima volta in Italia, i suoi nuovi Jazz Messengers.
Fu un concerto disgraziatissimo, che si preannunciò come tale fin da prima che cominciasse. Il pubblico stava infatti ancora prendendo posto in teatro quando Sunny Murray mi comunicò che non avrebbe potuto suonare data la piccolezza della batteria che gli avevamo messo a disposizione. (Lui effettivamente è un uomo di statura imponente, tanto che faceva uno strano effetto vederlo seduto accanto a una batteria. Però le batterie sono tutte pressappoco di misura eguale, e sarebbe stato impossibile trovarne una su misura per lui…) La verità era – così mi dissero altri membri della troupe – che nel confronto con gli altri due batteristi, Sunny Murray faceva invariabilmente una figuraccia, e si era stancato. Si rassegnò a farne una anche quella sera dopo che io gli ebbi comunicato che avrei fatto a meno dei suoi servigi e che non gli avrei corrisposto alcun compenso. «I’m happy now!», sono felice adesso, mi disse allora, dopo cinque minuti, senza spiegarmi la ragione del suo repentini mutamento d’umore. Quando suonò, con quella sua «non tecnica», mi fece stare in apprensione: al mio fianco Max Roach che scuoteva la testa borbottando qualcosa di non precisamente lusinghiero a proposito di quel che vedeva e sentiva.
La figura che fece Elvin Jones fu molto peggiore, ad ogni modo. Quando venne il turno del suo quartetto (al sax tenore c’era Joe Farrell) non riuscì minimamente a suonare. Andava al centro del palcoscenico, dov’era piazzata la batteria, dava qualche maldestro colpo sui tamburi e sui piatti, e poi tornava tra le quinte. Quel fiasco di vino che gli avevo visto sempre in mano, fin dal momento dell’arrivo a Milano, aveva fatto il suo effetto, evidentemente. Ancora mi domando come all’aeroporto lo abbiano lasciato passare per ripartire, il giorno dopo: la situazione infatti non era cambiata neppure dopo che Elvin ci aveva dormito sopra.
Poi anche Elvin tornò. Si comportò quasi sempre bene; ne fece di tutti i colori soltanto a Pescara, nel 1975, e sempre per la stessa ragione. Date le sue preoccupanti condizioni di salute, quella volta fu ricoverato in ospedale. Io lo venni a sapere dal suo agente olandese mentre mi trovavo a Montreux, per assistere al Festival del jazz. Sentendo certe notizie mi vennero i brividi, visto che Elvin avrebbe dovuto suonare col suo quartetto anche per me, a Verona, qualche giorno dopo.
Poi tutto si aggiustò. il nostro uomo fece indigestione di acqua minerale e si rimise in piedi. A Verona era come nuovo.
Mi sono sempre domandato come facciano i musicisti di jazz a superare certe crisi e a suonare. Quasi sempre, almeno.