
Un uomo chiamato Thelonious
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Da alcuni anni a questa parte è di rigore parlare di protesta. di rabbia, a proposito di qualsiasi jazzman nero che suoni in uno stile avanzato; attribuire impegno sociale, propositi rivoluzionari e vindici furori a chiunque faccia della musica agitata, irta di dissonanze, e magari rotta da strida e da fischi. E così, le prime volte che venni in Italia, anche Thelonious Monk fu interpretato – e presentato ai lettori dei quotidiani – in questa prospettiva eroica. In quella sua musica buia e contorta, a tratti illuminata da sinistri bagliori, era facile avvertire un luciferino odor di zolfo, un’angoscia fredda, e tanto bastava.
Sennonché Monk non si spiega affatto in questo modo. Al contrario lo si tradisce, se ne impedisce la comprensione. I suoi rapporti col mondo esterno sono infatti quanto mai tenui, i suo desiderio di comunicare con il prossimo è nullo; lungi dall’essere un artista impegnato, un uomo socialmente consapevole, Thelonious è un grosso bambino, dallo sconfinato egoismo, per il quale il resto del mondo non conta nulla. In una delle rarissime interviste da lui concesse, lo dimostrò con chiarezza. nel 1964, a Valerie Wilmer, giornalista e fotografa inglese innamorata del jazz, rispose così, a proposito della lotta combattuta con grande asprezza, in America, dai suoi fratelli di razza per la conquista dei diritti civili: «Non ne so praticamente niente… Quelle faccende razziali non sono nei miei pensieri. Tutti cercano di farmici pensare ma queste cose non mi turbano. Mi disturba solo la gente che cerca di farmi pensare a queste cose».
Un grosso bambino, dunque, che a un certo punto (tardi, perché dovettero passare parecchi anni prima che la sua musica fosse apprezzata) scoprì che ciò che aveva sempre fatto istintivamente, quasi per gioco, suscitava l’ammirazione degli altri, che pagavano per vederlo e ascoltarlo. Non si chiese perché, né cercò di allargare il suo uditorio; si rallegrò del successo soprattutto perché questo gli dava la possibilità di comprare dei bei vestiti e uno sterminato numero di cappelli delle più varie fogge, di alloggiare nei migliori alberghi del mondo, e di succhiare dei grossi gelati (glieli porta Nellie, sua moglie, che lui chiama imperiosamente ad ogni momento, come fanno i bambini capricciosi con la mamma). Di molte altre cose non sembra essersi curato. per parecchi anni non pensò neppure di abbandonare il modestissimo alloggio di San Juan Hill, uno dei ghetti neri di New York, dove aveva abitato fin dai tempi grami, quando riusciva giusto a sopravvivere grazie ai diritti che gli derivavano dalle scarse vendite dei suoi dischi e ai modesti guadagni di sua moglie.
In Italia Thelonious Monk è arrivato diverse volte, per dare dei concerti col suo quartetto. Il primo lo diede a Milano nel 1961, e fece sensazione, soprattutto perché i dischi da lui registrati nei mesi precedenti per la Riverside, che davano la misura del suo talento, non erano ancora arrivati da noi. Su di lui si avevano idee confuse prima di quel concerto; e non ci si attendeva molto. Nello storico confronto che, quel giorno, si sarebbe svolto, sul palcoscenico del Lirico, tra lui e Bud Powell, pareva probabile che dovesse aver la meglio Bud – sempre che, questa era l’incognita, fosse stato in buone condizioni psicofisiche. Non andò così: la mente del povero Bud era perduta chissà dove, il suo passo era malfermo, e le sue dita svolazzavano sulla tastiera quasi mimando un gioco semidimenticato. Thelonious invece era in grande giornata: non per nulla la registrazione di quella esibizione, che fu realizzata a sua insaputa da Bill Grauer – arrivato a rendere solenne la riunione fra i due grandi maestri del piano jazz del dopoguerra – fu molto lodata dalla critica internazionale quando apparve in disco.
Fui sorpreso quel giorno, nel constatare che Thelonious, che pure incontrava allora il suo vecchio e sfortunato amico dopo dieci anni esatti, non sembrava minimamente toccato dall’evento. Per tutto il tempo in cui potei osservarlo, rimase impassibile, apparentemente indifferente a tutto. nei successivi dieci anni, nei quali ebbi modo di presentare parecchi concerti suoi, gli avrei vista stampata sul viso quasi in permanenza quell’espressione di imperturbata disattenzione. Solo eccezionalmente l’ho visto alterarsi un poco; mai però fino al punto di cedere al sorriso.
Qualche volta tuttavia gli occhi di Monk possono brillare di beatitudine: la beatitudine dei bambini, fatta di meravigli e di desiderio. gliela lessi negli occhi la volta che lo scortai nella hall dell’Hotel Negresco, a Nizza, dove gli avevo prenotato una camera su suggerimento di George Wein, che gli faceva da agente. («Monk vuole un trattamento da star» mi aveva detto. «Mettilo nel miglior albergo che trovi, e non preoccuparti del prezzo.») In un’altra occasione fu una mia cravatta ad accendergli lo sguardo. «Che bella!», mormorò con voce carica di ammirazione, toccandola col dito. Fui tentato di sfilarmela dal colletto e di regalargliela.
Ma si tratta di momenti rari, l’ho già detto. Di norma il volto di Thelonious Monk non esprime nessun sentimento; il suo sguardo, apparentemente agganciato al nulla, scoraggia chiunque si proponga di avvicinarlo per rivolgergli la parola. quel suo silenzio, perdurante e greve, contribuisce a isolarlo ancora di più: a collocarlo, si direbbe, in un’altra dimensione. Chi gli sta vicino avverte un senso di disagio; ha presto la bizzarra sensazione che Thelonious sia in sintonia con le armonie di un universo remoto, a lui solo accessibile, che conosca e senta cose che a noi sfuggono. E che, d’altra parte, il nostro mondo gli riesca incomprensibile.
E’ di una ingenuità disarmante. Può fare delle domande che lasciano di stucco. Ne ricordo una: «Sono stati inventati prima i chilometri o le automobili?». Me la pose durante un viaggio sulla mia auto, dopo che gli ebbi spiegato che il tachimetro, che aveva attirato la sua curiosità, era diverso da quelli in uso in America perché indicava chilometri, non miglia. Fu quello uno dei pochissimi brandelli di conversazione in quel viaggio, che pure fu tutt’altro che breve. A salvare la situazione, a chiacchierare con me, pensò anche quella volta Nellie, una donna modesta ma viva e piena di buon senso.
Fu sempre Nellie ad accollarsi il peso della conversazione durante un pranzo a cui la invitai, assieme al marito, con la vaga speranza (molto vaga, in verità) di ricavare dall’incontro qualche ghiotta notizia per un articolo. Monk rimase quasi sempre zitto, ma seguì con attenzione quello che Nellie diceva su di lui e sulla sua carriera, e ogni tanto convalidava il racconto con un cenno del capo.
Ciò che appresi, di nuovo, in un paio d’ore di rade chiacchiere fu comunque così poco che rinunciai all’idea di scriverci sopra un pezzo, così che oggi, a distanza di più di dodici anni, mi riesce difficile ricordare quanto mi fu detto quel giorno. una cosa però mi è rimasta stampata nella memoria: l’enfasi con cui Nellie – in quel momento corroborata da un più convinto annuire del marito – sottolineò l’originalità della musica di Thelonious. «Lui non ha mai cercato di copiare nessuno, non ha mai chiesto consiglio a nessuno. Ha sempre suonato come suona oggi.»
Si parlava del periodo, tra il 1941 e il 1943, nel quale alcuni musicisti neri dell’ultima leva si ritrovavano ogni sera al Minton’s un localino jazzistico di Harlem, dove avvenne la laboriosa gestazione del bebop, la rivoluzionaria nuova musica che avrebbe mutato il corso della storia del jazz. Monk aveva lavorato al Minton’s, in modo continuativo, per mesi e mesi, a fianco di quei giovani turchi, ivi compresi i grandi, e cioè Dizzy Gillespie e Charlie Parker; e avrebbe potuto raccontarmi cose estremamente interessanti, dal momento che nessuno è mai riuscito a ricostruire con esattezza ciò che avvenne in quel misero locale in quegli anni cruciali. Ma tutto ciò che cavai dalle sue labbra fu uno stentato: «charlie Parker comparve al Minton’s molto tempo dopo di me. Io non gli ho mai chiesto niente».
Non ottenni risultati sostanzialmente migliori il giorno dopo, nel corso della registrazione di uno «special» televisivo per la RAI. Dovevamo filmare e registrare mezz’ora di musica del suo quartetto, preceduta da un discorsetto introduttivo di Lelio Luttazzi, e da quattro parole scambiate tra me e Monk. Sapendo quanto poco loquace fosse il mio uomo, gli anticipai, durante il tragitto verso gli studi di corso Sempione, a Milano, le domande che gli avrei fatto, e lui, sotto l’occhio apprensivo di George Wein che veniva a vedere come sarebbe andata a finire, articolò faticosamente, ma con molto impegno, un paio di risposte. Sembrava uno scolaretto che ripassasse la lezione con i genitori.
Dinanzi alle telecamere poi non fece una gran figura con quelle risposte maledettamente disadorne (e mi fece rabbia, perché nell’attesa mi aveva parlato, con discreta disinvoltura, di Cosa Nostra, confidandomi, tra l’altro, che gran parte spacciatori di droga di New York sono di origine italiana…), e io mi domando ancora se non fu questa la ragione per cui quello «special» non fu mai trasmesso. Comunque sia, fu uno sbaglio non mandarlo in onda perché la musica era eccellente, e anche perché la registrazione della voce di Monk costituisce una vera rarità per i collezionisti.
Certo per via della rarità, ma anche per la sua inverosimiglianza (tutto quello che riguarda Monk è inverosimile) qualche sua battuta ha fatto il giro dei jazz-clubs di New York. Per esempio la sua definizione del rock – «Il rock è jazz ignorante» – che meriterebbe di essere incisa sul marmo, o quella che di seguito riferisco e che fu resa di pubblico dominio da qualcuno che lo accompagnò nel 1971 nella tournée australiana dei Giants of Jazz. quella volta Monk fu trasportato in automobile da una città all’altra, ed è superfluo aggiungere che durante il viaggio non fu affatto loquace. Stette zitto a lungo invece, mentre il suo sguardo vagava per la campagna australiana che gli scorreva dinanzi agli occhi. I suoi accompagnatori avevano ormai rinunciato a udire la sua voce, quando lo sentirono borbottare tra sé: «Ma dove sono questi fottuti canguri?». Una spessa coltre di silenzio ricoprì la domanda, che non attendeva risposta.
Una volta, ad ogni modo, Thelonious fu visto parlare a lungo. il fatto inconsueto accadde tra le quinte del teatro dell’Arte, a Milano. Peccato però che nessuno saprà mai con precisione cosa disse, perché quella volta regalò il suo prezioso discorso al pompiere di servizio, che, non capendo una parola d’inglese, si limitò a guardarlo con espressione allarmata. Un amico nostro, che si trovava nei pressi e che aveva potuto orecchiare qualche frase, riferì poi che Monk aveva comunicato al «collega» di essere stato anche lui pompiere in anni lontani e aveva voluto fraternizzare. (Quando e per quanto tempo sia stato pompiere non sono mai riuscito ad appurare: su questo – come su moltissimi altri momenti della sua tormentata biografia – la letteratura jazzistica tace. Per il semplice motivo che ha taciuto lui.)
Quella volta, al Teatro dell’Arte, Monk fece della musica indimenticabile, benché allora sembrasse tutt’altro che interessato alle reazione del pubblico e alla felice riuscita del concerto. Era sempre così. Si aveva l’impressione che suonasse contro voglia; che salisse sul palcoscenico non già per impegnarsi in uno spettacolo, o per esprimersi, per comunicare qualcosa che gli premesse dentro, ma giusto per offrirsi alla curiosità del pubblico, per farsi rimirare, poiché così gli era stato detto di fare.
Forse anche per questo motivo i suoi concerti si rassomigliavano come tante gocce d’acqua. E’ un fatto che l’intenso periodo di creatività durante il quale sfornò quasi tutte le sue composizioni più belle si concluse quando il pubblico si accorse del suo talento. Da quel momento ciò che per lui era forse stato un divertente gioco, divenne mestiere, e l’esecuzione prese il posto dell’invenzione.
Da alcuni anni Monk si è praticamente ritirato dalla scena. La sua salute non è buona, e la voglia di esibirsi in pubblico gli è venuta meno. Negli ultimi anni è stato ascoltato in occasioni eccezionali, come il festival «di Newport» a New York, semel in anno, e anche meno.
Ma anche in quelle solenni circostanze, a quanto so, Thelonious Monk non ha mutato di un ette il rituale a cui abbiamo tante volte assistito. Mi par di vederlo. Si avvicina al pianoforte con aria assente, con in testa un cappelluccio ami visto prima, poi si siede pesantemente sullo sgabello, butta le manone sulla tastiera, e comincia a suonare, tenendo i gomiti all’infuori: Epistrophy, blue Monk, Straight No Chaser, Rhythm-a-Ning, Crepuscule with Nellie, e così via, fino a quando, stanco di sentirsi tanti occhi addosso, attacca ancora Epistrophy, e poi se ne torna tar le quinte senza curarsi del pubblico che applaude e chiede dei bis, seguito dai suoi uomini, che sono i fedelissimi di ieri e di ier l’altro.
Dopo un attimo, Thelonious ha dimenticato tutto: il pubblico, il concerto, persino il luogo in cui si trova. Se avete qualcosa da chiedergli, farete bene a rivolgervi a Nellie.