Tristano

Mi erano rimaste nella memoria le fotografie di Lennie Tristano scattate intorno al 1946-47, glianni della sua prima affermazione a New York: fu quindi sorprendente per me il primo incontro con lui. Eccolo lì, Tristano, un uomo di mezz’età, di piccola statura e dall’aspetto inconfondibilmente italiano. Più specificatamente: italiano meridionale.
Tristano fu uno dei tanti jazzmen illustri che riuscimmo a presentare al Teatro dell’Arte di Milano nella sua più felice stagione, a metà degli anni Sessanta. Su esibì in un concerto che aveva come altra vedette Bill Evans (nel cui trio era l’allora adolescente e poco più che esordiente, ma già bravissimo, Niels Henning Orsted Pedersen); al fianco di Tristano avrebbe dovuto esserci Lee Konitz, che noi avevamo impegnato a suonare con lui ma che poi, sfortunatamente, perse l’aereo per Milano.
Come tutti i ciechi, Tristano è dolorosamente consapevole del suo stato (è una pena vederlo compiere certe operazioni, anche semplici), ma si sforza di vivere intensamente, come se nulla fosse. E’ molto intelligente, molto severo, e molto curioso. Parlando con lui si ha l’impressione di essere sottoposti a un esame: io sono stato da lui rimproverato più volte per il modo in cui svolgevo l’attività concertistica (modo che apprendeva da me). Secondo lui, io presentavo troppi musicisti che avrei fatto meglio a dimenticare, si trattasse pure di Charles Mingus dei cui recenti misfatti in Europa gli era giunta notizia. («Perché scritturi gente simile?», mi chiese, con aria di disapprovazione.)
Nel giorno che passai con lui ebbi la netta sensazione che l’uomo fosse amareggiato dalla sensazione di non avere avuto il riconoscimento meritato. Ci teneva a mettere bene in chiaro che l’invenzione del free jazz (lui diceva più precisamente: free forms in jazz) si dovette a lui, quando Konitz e altri incisero lo storico Intuition. Sembrava che avesse orrore per il mondo del jazz e in particolare per il modo di vivere che il mestiere del jazzman comportava. Da tempo aveva smesso di suonare nei locali notturni: li aborriva. «Si beve e si fuma troppo. Non è un bel modo di vivere» disse. E poi non gli piaceva l’aspetto commerciale implicito nella vendita delle sue incisioni, che infatti a un certo punto non ha voluto più fare.
Nei pochi giorni in cui rimase in Italia, si esibì per alcuni giorni anche in un locale notturno allora frequentato dai jazzisti (prima di entrarci era preoccupato: «Ma non vorranno mica che io faccia musica ye-ye?»), poi diede un concerto a Padova, per gli studenti. Alla fine della sua permanenza decise di tornare, ciò che poi non fece. Ricevette una strana lettera da Joe Lifton – suo amico, accompagnatore e in qualche modo manager – in cui, per conto di Lennie, mi veniva chiesto un elenco dei teatri italiani che avessero almeno duemila posti e che, per questo solo motivo dovevano essere adatti a Tristano; poi non seppi più nulla da lui (anche perché la mia risposta era stata evasiva).
Ebbi invece notizie di Tristano, sia attraverso i giornali che attraverso amici comuni. Non ha più ripreso la vita del jazzman militante ma ha continuato a dedicarsi all’insegnamento, a New York.
Di tanto in tanto, George Wein gli ha fatto delle allettantissime proposte per un rientro in scena, ma non è venuto a capo di nulla anche se alcune volte era riuscito a ottenere un «sì», rivelandosi poi retrattile. Non volle neppure partecipare a una solenne serata in suo onore, che Wein aveva messo in programma alla Carnegie Hall. Più tardi, a metà degli anni settanta il cieco pianista fu lì lì per accettare di compiere una tournée con Lee Konitz e alti musicisti da lui stesso selezionati (il bassita avrebbe dovuto essere Niels Henning Orsted Pedersen e il batterista Billy Higgins: Wein glieli aveva promessi impegnandosi a fare qualunque cosa per ottenerne i servigi) ma poi non se ne fece nulla. (Konitz mi aveva detto ridendo: «Pensa, sarebbe stato un ritorno più sensazionale di quello di Sonny Rollins dopo il ritiro sul ponte…».)
Ora quasi nessuno si illude più di poter presentare Lennie Tristano a trent’anni di distanza dal suo debutto e dalla nascita (dovuta soprattutto a lui) del cool jazz. La verità è che Tristano ha paura del pubblico, e forse anche del successo. Perché il successo – penso io – gli impedirebbe di recriminare.
Tuttavia se la passa bene, mi dicono. E’ ingrassato, beve troppo, ma vive in una bella casa, che gran parte degli uomini del jazz, anche famosi gli possono invidiare.
Chissà se rivedremo mai Tristano. E chissà come suona, oggi.