
Verso il paese delle meraviglie
Indice
Per entrare nel mondo del jazz pagai cinque lire. Tanto costava il biglietto d’ingresso a uno dei concerti organizzati, ogni mese, dal Circolo del Jazz Hot a Milano. Nell’ottobre 1936, per un ragazzo di diciassette anni quale io ero, quelle cinque lire d’argento erano piuttosto pesanti, ma le pagai volentieri. Non so perché, qualcosa mi diceva che stavo compiendo un dovere. Di fatto, dopo quella sera mi considerai una specie di militante: non avrei mai immaginato però, fino a che punto mi sarei trovato coinvolto nel mondo del jazz, quante migliaia di volte avrei pronunciato e scritto quello strano monosillabo, jazz, sul cui significato avrei avuto idee confuse per molto tempo ancora.
Ora so che, allora, c’erano solo pochissime persone, in Europa come in America, che avessero le idee abbastanza chiare su cosa si dovesse intendere per «jazz». Dopo tutto erano passati solo pochi anni da quando era apparso sugli schermi di tutto il mondo il primo film sonoro, che si intitolava «Il cantante di jazz» e che raccontava le melodrammatiche vicende di un cantante che col jazz non c’entrava per nulla. Era Al Jolson: cantava tenendo le braccia spalancate, qualche volta semi inginocchiato, aveva una strana voce, fessa e squillante allo stesso tempo; però si esibiva con la faccia tinta di nero, le labbra pesantemente ripassate con la biacca e un parrucchino di lana in testa, come un minstrel, e poi aveva avuto a che vedere con George Gershwin, di cui aveva lanciato la prima canzone di successo, «Swanee». In quegli anni bastava meno per essere considerati cantanti o musicisti di jazz. Non va scordato che, per moltissimi, il «Re del jazz» era ancora Paul Whiteman. (Con un vice in Europa: Jack Hylton.)
Quando entrai nei locali del Lyceum, in Via Filodrammatici, dove si era appena insediato il Circolo del Jazz Hot, i giovani che vi trovai riuniti sapevano qualcosa di più. Sapevano, per cominciare, che bisognava distinguere fra jazz «straight» e jazz «hot» e che solo quest’ultimo meritava considerazione. In realtà lo straight (oggi si direbbe: il «liscio») non era affatto jazz, ma orecchiabile musica da ballo eseguita senza variazioni: «commerciale», come si diceva allora.
Devo ammettere che a me lo straight piaceva moltissimo: avevo più dischi di quel tipo che dischi hot. Lo confessai candidamente a un ragazzo che mi sedeva accanto quella sera, e che aveva pressappoco la mia età. Si chiamava Peregrini. «Non ti far sentire» ammonì. «io ti capisco, perché anch’io vengo dallo straight. Però qui conta solo il jazz hot.» Mi sentii molto «square» (ma la parola, con cui gli amatori del jazz bollano i profani, quelli che non capiscono niente, l’avrei imparata più tardi, leggendo le riviste americane) e fui pervaso da un grande desiderio di redimermi. Dovevo svezzarmi al più presto: e chissà che un giorno non sarei arrivato anch’io a possedere venti differenti versioni di «I’ve Found a New Baby», come quel socio del circolo della cui discoteca Peregrini mi aveva dato notizie mirabolanti.
Quella sera feci la conoscenza dei due fondatori e factotum del circolo: Giancarlo Testoni e Ezio Levi. Quest’ultimo era anche un ottimo musicista dilettante; Testoni, che allora aveva ventitrè anni, era invece soprattutto un missionario del jazz, un crociato. Uno che faceva programmi, spesso molto ambiziosi, e che si dava da fare per realizzarli, con mezzi sempre inadeguati. i due avevano costituito il circolo qualche mese prima, in febbraio, e stavano scrivendo insieme un libro intitolato «Introduzione alla vera musica jazz» (il primo trattatello scritto in Italia, e uno dei primissimi apparsi al mondo). All’inizio si erano aggregati a un’associazione già esistente, il Junior Circle, costituito da giovani inglesi (pensate che follia: in quel tempo a causa delle famose sanzioni economiche, tutto ciò che era inglese era ritenuto esecrabile), poi si erano resi indipendenti, e avevano fissato la sede del neonato circolo nella sala superiore del Campari, in Galleria: una sala contigua a quella in cui, trentacinque anni dopo, avrebbe iniziato la sua difficile vita il Jazz Power, il primo locale jazzistico davvero internazionale che sia stato aperto a Milano.
Avevano redatto un bellissimo statuto – e giurerei che si trattò di un parto personale di Testoni, che a queste cose era portato – e ne avevano dovuto sottoporre il testo all’approvazione della Questura, necessaria per ottenere l’autorizzazione a svolgere l’attività che si proponevano. Quando arrivò all’art. 3, il funzionario incaricato di controllare la liceità degli scopi dell’associazione secondo l’etica fascista rimase perplesso. C’era scritto testualmente che il principale scopo dell’Associazione era quello di «Svolgere un’attività capace di servire il Jazz Hot in Italia». Mesi dopo quell’articolo di statuto fu commentato con parole sferzanti da un corsivista del «Popolo d’Italia»: era inconcepibile che degli italiani, ormai lanciati verso luminosi destini imperiali, potessero «servire» la causa di una musica straniera. La quale, poi, chi non lo sapeva?, era una «musica di selvaggi», nata, quasi non bastasse, in un paese demo-plutocratico. (Quei paladini del jazz sarebbero stati stigmatizzati anche sulle pagine di «Libro e Moschetto», il giornale dei GUF, i gruppi Universitari Fascisti: si trattava di «gagarelli» esterofili, ecco cosa erano.)
Testoni e Levi non sembravano preoccuparsi troppo di certe censure. Muovendosi in una direzione opposta a quella indicata dagli uomini di regime, che predicavano l’autarchia, il nazionalismo e la xenofobia, si erano subito adoperati per stabilire dei contatti con l’estero. pochi mesi prima, nel 1935, per iniziativa di Charles Delauney – il giovane rampollo di due illustri pittori: Robert e Sonia Delauney – e di Hugues Panassié – critico precocissimo, da tempo pontificante – , era nata a Parigi la rivista mensile «Jazz Hot», che diffondeva la buona novella del jazz per chi aveva orecchie per intenderla: parve indispensabile a Testoni e a Levi prendere contatto coi correligionari d’oltralpe, che furono lieti di pubblicare sulla loro rivista i loro comunicati, spesso redatti in termini spudoratamente autolaudatori.
I pionieri, evidentemente, sentivano il dovere di aiutarsi fra loro. Anche perché erano pochissimi. Oltre ai francesi, cha avevano costituito da un paio d’anni o poco più l’Hot Club de France, e agli inglesi che animavano i Rhythm Clubs e che scrivevano pezzi sul «Melody Maker» (uno di loro era Leonard Feather – un coetaneo di Testoni e di Panassié – che è rimasto l’unico critico di jazz della primissima generazione tuttora attivo), i missionari del jazz erano delle rarae aves; anche in America si contavano sulle dita, tanto che bastava a contenerli tutti il Commodore Music Shop, un negozietto di dischi sulla 42a strada di New York dove si davano regolarmente convegno. Quanto all’Italia, oltre a quelli del Circolo del Jazz Hot, si dava un gran daffare Alfredo Antonino, che aveva una discoteca invidiabile (300 dischi a 78 giri, si mormorava con invidia) e che nel gennaio del 1935 era riuscito a compiere un piccolo miracolo, dirottando verso il Teatro Chiarella di Torino nientemeno che Louis Armstrong, che da qualche mese girava per l’Europa.
Anche se qualcuno li aveva preceduti, quelli del Circolo del Jazz Hot erano davvero dei pionieri. Probabilmente si dovette proprio a loro il primo concerto di jazz italiano – presentato come tale, dinanzi a un pubblico pagante – che sia mai stato organizzato. Quella volta io non c’ero, perché avrei appreso dell’esistenza del circolo solo qualche mese dopo: devo quindi accontentarmi di rievocare l’avvenimento attraverso le parole di Testoni, che, anni dopo, su «Musica e Jazz», raccontò la storia del defunto circolo.
«Il primo complesso che prese coraggiosamente parte a quel primo concerto del nostro circolo era costituito da Impallomeni (tromba), Cottiglieri (sax tenore), Gallone (clarino e sax baritono), Levi (piano) e D’Elia (contrabbasso). In genere, artisti eccellenti, che da allora hanno fatto strada: ma vi assicuro che in quel lontano 14 marzo 1936 salirono sul palcoscenico del circolo «Nuova Vita» tremanti d’emozione. Ricordo che, con apparente freddezza, li avevo esortati a fare del buon jazz, solamente del buon jazz: «siate più hot che potete». In prima fila, tra gli spettatori, c’erano i più bollenti soci del circolo…
«Il complessino iniziò esitante, timido: fece dello straight più che dell’hot, e comincio Gallone a «svisare», uscendo purtroppo, imperterrito fuori delle armonie del tema, con suprema disperazione dei suoi compagni. I quali, verso la fine del programma, cominciarono a scaldarsi davvero, suscitando gli applausi frenetici del pubblico.»
Nei mesi successivi si ascoltarono parecchi altri musicisti. Kramer soprattutto: benché suonasse uno strumento poco adatto al jazz come la fisarmonica, era considerato, ed era, il primo della classe. E poi Franco Mojoli, Pippo Renna, Cosimo di Ceglie, Oscar De Mejo, Piero Rizza e qualche altro. Si ascoltò anche un violinista negro americano, sconosciutissimo, ma accolto come un re: si chiamava Paul Jordan, detto «Spade». Pare che, per vivere, suonasse soprattutto musica tzigana. Ne fu redatta una breve biografia sul bollettino ciclostilato del circolo.
Il circolo patrocinò pure l’incisione di qualche disco con la partecipazione di alcuni musicisti di sua fiducia. Si pensava allora che si trattasse dei primi dischi di jazz registrati in Italia, ma non era vero: c’erano stati, tra gli orchestrali professionisti, altri pionieri, meno «puristi», meno informati e consapevoli di quelli che rispondevano agli appelli di Levi e Testoni, e tuttavia meritevoli di essere ricordati: quelli che avevano militato nelle orchestre Mirador e di Sesto Carlini, tanto per fare due nomi.
Ai concerti si alternavano conferenze-audizioni, che si tenevano tutte le settimane. Offrivano delle emozioni straordinarie: i dischi che si ascoltavano erano praticamente introvabili, e ogni sera si faceva la conoscenza di qualche nuovo personaggio. Ricordo distintamente la sera che appresi dell’esistenza di Bix Beiderbecke. Era un giovanotto bianco, che sapeva suonare la cornetta come un dio e che era morto alcolizzato cinque anni prima: forse se avesse continuato a vivere, avrebbe potuto superare la fama di Louis Armstrong, ci fu spiegato. Ricordo male, o chi presentò i suoi dischi ai soci fu Marcello Marchesi, un giovane giornalista umoristico assai differente dal «signore di mezza età» che avrei rivisto molti anni dopo sui teleschermi? E’ sicuro che, vincendo la pigrizia, Marchesi aveva tenuto in quel periodo, una dotta conferenza-audizione sulle «trombe hot».
Nei primi mesi del 1938 il circolo morì quietamente. Gli attivisti si erano stancati perché erano troppo pochi, e del resto i tempi non erano propizi per certe cose. A un certo punto Testoni fu richiamato alle armi, e tanto bastava.
I pochissimi che, a Milano, seguivano il jazz (dovevano essere giusto quattro gatti, vista la facilità con cui si riusciva a mettere le mani sui rari dischi importati dall’estero, magari in tre o quattro copie solamente) poterono continuare ad ascoltare la loro musica prediletta grazie alle trasmissioni di certe emittenti straniere e ai dischi, che per un po’ continuarono ad arrivare. Se poi si voleva sentire del jazz «dal vivo», si poteva andare alla taverna Ferrario, una «balera» sotterranea in via Meravigli, dove una grande orchestra era capace di farvi ascoltare, in una decorosa esecuzione, qualche arrangiamento preso pari pari dai dischi di Bob Crosby. Intorno al 1939-40 si faceva del jazz anche nella sala superiore del Campari, dove si era insediato il complesso di Enzo Ceragioli a cui, in quegli anni, facevamo tutti tanto di cappello.
Venne la guerra e di jazz non si parlò più per qualche anno. Per quanto mi riguarda, ne risentii parlare soltanto nel 1944, quando entrò in funzione, nella Milano occupata dai tedeschi, Radio Tevere, una emittente repubblichina che trasmetteva comunicati trionfalistici sui bombardamenti di Londra e incitava i poveri romani caduti nelle mani degli alleati a tener duro, in attesa dell’immancabile ritorno dei bei tempi. («Si stava meglio quando si stava peggio», era lo slogan preferito dal radiofonico incoraggiatore, che parlava in romanesco e diceva di chiamarsi Cacini.) Sembrerà strano, ma tra un comunicato guerresco e l’altro, radio Tevere trasmetteva dischi di jazz a tutto spiano: seppi poi che li forniva e li commentava – con discreta competenza – un certo Bo Della Rocca, che avrei conosciuto anni dopo.
Penso che sia stato il precedente di radio Tevere a indurre il giornalista Piero Farnè a organizzare a Milano, in quel periodo, un paio di concerti di «musica moderna» – così dicevano i manifesti – che altro non era che jazz, fatto, s’intende, da musicisti italiani. Farnè si era preoccupato solo di italianizzare, sul programma, i titoli dei pezzi americani e di alterare le generalità dei compositori: non «Stardust» di Carmichael, ma «Polvere di Stelle» di Carmelito, non Duke Ellington, ma Del Duca, e così via.
Benché allora girassi per Milano sotto mentite spoglie (non avevo alcuna voglia di rispondere agli appelli dell’esercito fascista: con la naja avevo chiuso il 9 settembre 1943) assistetti a quei concerti e li recensii, persino, per un settimanale di varietà, plaudendo all’iniziativa. Io però parlai di «jazz», e Farnè mi telefonò subito allarmatissimo per le possibili conseguenze, che però non ci furono: ci doveva essere qualche jazzofilo nascosto tra nel Comando tedesco. Una cosa è certa: in mezzo a quella folla strabocchevole che assisteva a quei concerti, c’erano molti militari tedeschi in divisa, che avevano tutta l’aria di sapere di cosa si trattasse e di divertirsi molto. Mi sarei dovuto ricordare di quei concerti a guerra finita: forse una pubblicazione sul jazz avrebbe potuto avere fortuna, pensavo.
Appena la guerra terminò cercai di attuare in qualche modo il progetto che avevo accarezzato vedendo il pubblico che gremiva la platea del teatro Olimpia. Con la collaborazione di mio fratello misi insieme un fascicolo in carta patinata intitolato «I Re dello Swing» – in copertina non poteva esserci altro che Benny Goodman, anche perché non sapevo ancora che era stato da poco detronizzato da Glenn Milller – e lo feci distribuire nelle edicole. Doveva essere un «ballon d’essai». Quel fascicolo uscì contemporaneamente al primo numero di «Musica e Jazz», un quattordicinale di grande formato, che fece la sua apparizione nel luglio del 1945 assieme ai primissimi periodici dell’Italia libera: l’ava fondato, diretto, impaginato e in gran parte scritto Gian Carlo Testoni. Avevamo avuto la stessa idea, evidentemente.
Visto in edicola il suo giornale, telefonai a Testoni. sarebbe stato sciocco farci concorrenza tra di noi, convenimmo subito; io avrei potuto collaborare regolarmente al nuovo periodico, e Dio sa se Testoni aveva bisogno d’aiuto. Ci demmo appuntamento presso una casa editrice, in centro. Lui era raggiante perché, in quelle euforiche settimane, tutta l’Italia cantava una canzone di cui aveva scritto il testo (era «In cerca di te»: quella che fa «Sola me ne vo per la città, passo tra la folla che non sa…») e quel successone era di ottimo augurio per la carriera che aveva già iniziato prima della guerra e a cui voleva dedicarsi completamente: quella del «paroliere». Ci mettemmo subito d’accordo, anche perché né io né lui pensavamo di ricavare un guadagno da quel giornale (poi chissà…) ed eravamo entrambi animati dal sacro fuoco.
Ci accorgemmo subito però che un periodico jazzistico era un pessimo affare, anche se veniva fatto in economia come lo facevamo noi. Gli articoli e le foto che dedicavamo agli esponenti della musica leggera non jazzistica non bastavano a guadagnarci un numero decente di lettori; al contrario, ci dovemmo convincere presto che tutto ciò che non riguardava strettamente il jazz autentico (qualcuno lo chiamava ancora «hot») serviva soltanto a irritare i pochi lettori che ci seguivano. Fu così deciso di cedere la testata a un tipografo, Sergio Azzimonti; e poi di abbandonare la politica ecumenica iniziale, lasciando cadere di conseguenza la «e» fra «Musica» e «Jazz», di modificare la periodicità, che divenne mensile, e di ridurre il formato.
Ma ancora prima di attuare questi provvedimenti, Testoni ebbe l’idea di varare assieme ai più stretti collaboratori della neonata rivista un Centro Studi del Jazz, che avrebbe dovuto fare da punto di riferimento e da centro di coordinamento per tutti coloro che in Italia si occupavano o intendevano occuparsi di jazz. Alla fine del 1945 lo Statuto era pronto: lo pubblicammo subito con la firma dei promotori: noi due, Roberto Nicolosi, Livio Cerri e Alessio Gurviz. Qualche mese dopo ricostituimmo un circolo del jazz a Milano. Io ero già segretario del Centro e lo divenni anche del circolo.
L’Hot Club Milano prese il via alla fine del 46, ma non fu il primo e neanche l’ultimo ad essere costituito in Italia in quel periodo. In pochi mesi ne sorsero parecchi, tanto che nella prima metà del 1947, a seguito di un referendum indetto tra gli aderenti, il Centro Studi fu trasformato in una Federazione Italiana del Jazz. Toccò a me, in qualità di segretario, tenere la corrispondenza coi responsabili dei diversi circoli, a cui distribuivo informazioni, consigli e incoraggiamenti. Potei vedere in faccia gran parte dei miei corrispondenti quando furono invitati a Milano per il primo convegno dei rappresentanti degli Hot Club italiani. Ci fu un’assemblea, con tanto di elezioni (nel Consiglio, ai promotori si vennero ad aggiungere Giuseppe Barazzetta, Giacomo Carrara ed Ezio Levi, tornato in Italia dopo anni di esilio in America) e ci fu una lunga jam session nel pomeriggio: post prandium delectas.
Fino allora nessuno di noi sapeva precisamente su quali forze potesse contare il jazz italiano: conoscevamo solo i nostri amici milanesi e i nomi degli eroi locali che venivano esaltati nei rapporti che i responsabili dei circoli jazzistici in Italia ci inviavano periodicamente. Che quegli elogi fossero meritati dubitavamo: non c’era tromba, non c’era sassofono che non fosse «eccellente»; per male che andasse si trattava di «sicure promesse».
Si vide quanto i nostri amici avessero calcato la mano quando, nella primavera del 1948, indicemmo, a Firenze, il Secondo Convegno Nazionale dei Circoli del jazz, al quale ognuno fu invitato a esibire i propri campioni. Visto che i complessi organici erano praticamente inesistenti, accettavamo anche solisti sciolti: noi poi li avremmo uniti agli altri perché suonassero in jam session.
Quella specie di protofestival del jazz italiano, che si proponeva di censire le forze vive del nostro jazz, di fare il punto della situazione, dimostrò soltanto che questa era piuttosto scoraggiante. A parte qualche buon solista e un complesso (quello venuto da Roma, e che era poi la ex «0,13» che aveva fatto faville nella Roma occupata sotto la guida di Piero Piccioni) c’era il deserto. Ci dovemmo pentire di avere invitato qualche ospite di riguardo, come Charles Delaunay e due ottimi solisti francesi, Hubert Fol e Jack Diéval, che surclassarono i nostri suonando con disinvoltura quel bebop che noi avevamo conosciuto soltanto sui dischi.
Coi francesi avrebbe dovuto arrivare anche Kenny Clarke, con cui c’eravamo accordati. Ma all’ultimo momento il già famoso batterista americano cambiò idea: evidentemente non sentiva le vibrazioni giuste, come dicono oggi i jazzmen. Per vedere in carne ed ossa uno di quei mitici personaggi di cui andavamo parlando e scrivendo da anni avremmo dovuto aspettare ancora qualche mese.
I primi jazzisti illustri che comparvero in Italia furono Stéphane Grappelly (allora si firmava così, con la i greca) e Django Reinhardt. Ma non vennero insieme e non si riunirono mai, come invece avrebbero dovuto fare. Grappelly arrivò a Milano ai primi di dicembre e si istallò al Ciro’s, un night club allora di moda; Django si fece vedere alla vigilia di Natale e poco dopo cominciò a esibirsi all’Astoria accompagnato da alcuni musicisti milanesi fra cui l’allora giovanissimo Franco Cerri. Django era un tipo cordiale, simpatico ma irrequieto e imprevedibile come tutti gli zingari. A un certo punto scomparve Sapemmo poi che la direzione del locale non aveva apprezzato la musica sua e del complesso.
Pressappoco in quel periodo Delaunay mi fece sapere di essere a buon punto con l’organizzazione di un grande festival del jazz che si sarebbe svolto nel maggio del 1949 alla Salle Pleyel, a Parigi, e che sarebbe durato una settimana. Erano previsti due concerti al giorno, con complessi americani ed europei. Sarebbero arrivati Charlie Parker, Sidney Bechet, Miles Davis, Max Roach, Tadd Dameron, «Hot Lips» Page e Dio sa quanti altri. Nel darmi queste strepitose notizie, Delaunay mi chiedeva di inviare al festival un musicista in rappresentanza del jazz italiano (uno di numero: evidentemente l’esperienza di Firenze lo aveva reso guardingo) e mi invitava a Parigi: avrei potuto scrivere una recensione dei concerti.
Dovendo scegliere un solo musicista non poteva trattarsi che di un pianista: ma chi era il migliore? dopo essermi guardato attorno e avere consultato qualche amico, mi fissai sul nome di Alberto Trovajoli, un giovanotto che suonava nei night club di Roma e che godeva già di un’ottima reputazione presso gli amatori del jazz locali.
Cercai anche qualche compagno di viaggio, e lo trovai. Gorni Kramer ci pilotò con la sua macchina fino a Parigi. Arrivammo che il festival era già cominciato per lo meno da un paio di giorni. Di Trovajoli nessuno seppe dirci nulla e per un po’ pensammo che non l’avremmo visto comparire affatto. Si presentò all’ultimo momento. Era arrivato da Roma con la sua 500 giardinetta e poi aveva girovagato per Parigi. Era andato, ci disse, a rendere omaggio alla tomba di Chopin.
Trovai Delaunay un po’ giù di corda. «Stiamo perdendo soldi», mi confidò con un mesto sorriso. Credo che avesse perduti parecchi perché alcuni anni dopo stava ancora pagando gli ultimi debiti contratti in quei giorni di gloria e di disfatta. «E Parker?», gli chiesi subito. Parker per noi era una specie di padreterno: ero arrivato a Parigi soprattutto per ascoltare lui. «Con Charlie non si può mai sapere cosa può succedere. Appena arrivato a Parigi qualcuno gli ha fatto conoscere i vini francesi, e allora sono stai guai.»
Flavio Ambrosetti, un nostro amico che militava nel sestetto svizzero di Hazy Osterwald, e che suonava, come tanti in quegli anni, in uno stile simile a quello di Parker, fu ancora più tranchant: «Parker è finito», mi disse con accento dolente:
In realtà il grande Bird non era affatto finito, come si sarebbe visto negli anni successivi: era solo inebetito dall’alcool e dall’eroina.
Resterà per me sempre un mistero come sia stato possibile a un «pirata» discografico mettere insieme un long playing più che decoroso utilizzando le registrazioni effettuate, con mezzi di fortuna, durante quei concerti. Forse ha scelto pezzi eseguiti nei giorni in cui né io né Ambrosetti eravamo presenti; e forse è riuscito anche a isolare, fra le molte esecuzioni disordinate e confuse, i momenti felici, che Bird riusciva di tanto in tanto a trovare. Comunque sia, io ricordo Parker in condizioni pietose: con un sorriso stolido sulle labbra, dondolante sule gambe malferme anche sul palcoscenico. E ricordo le sue goffe presentazioni in cui cercava di essere spiritoso («Conoscete Lily Pons’ Hodges…?»), e ricordo soprattutto certi suoi sgangherati assoli che venivano accolti con malumore da un pubblico sconcertato. Rammento anche il tentativo fatto da non so qual giornalista di intervistarlo, fra le quinte. Costui, che si era presentato molto compitamente, non riuscì a porgli una sola domanda. Aveva appena aperto bocca che già Charlie lo abbracciava e lo baciava sulle guance con trasporto: «My friend» ripeteva, ed è sicuro che non lo aveva mai visto prima. Quell’imbarazzante spettacolo mi fece passare definitivamente la voglia di scambiare quattro chiacchiere col sassofonista, come mi ero proposto di fare.
A parte Charlie Parker, quei concerti rappresentarono per me una specie di viaggio nel Paese delle Meraviglie. Eravamo tutti intimiditi: noi appassionati di jazz perché eravamo al nostro primo incontro coi «grandi» d’oltre oceano; i musicisti europei, in quanto intimoriti dai concerti che li attendevano (trionfarono gli svedesi; nessuno in europa poteva competere con loro, in quegli anni) e infine i musicisti americani, che erano quasi tutti alla loro prima spedizione oltre atlantico e non sapevano come comportarsi davanti a un pubblico entusiasta e adorante quale non avevano mai incontrato.
In patria erano dei poveracci, trattati il più delle volte con aperto disprezzo. A Parigi erano dei divi, a cui si chiedeva rispettosamente l’autografo.
Il più intimidito era Miles Davis. Era un musicista ammirevole (aveva da poco inciso una parte dei suoi famosissimi dischi Capitol, e altri ne avrebbe registrati subito dopo il suo ritorno in patria) ma era poco più che un ragazzo: avrebbe compiuto ventitrè anni di lì a pochi giorni. Aveva i capelli impomatati e ondulati e la faccia impassibile di sempre, ma nei suoi occhi si leggeva una sconfinata timidezza. (In quegli stessi occhi, parecchi anni dopo, si sarebbe letta una sconfinata arroganza…)
uno dei momenti emozionanti di quel lungo festival fu per noi quello in cui vedemmo salire per la prima volta sul palco in nostro campione, Trovajoli, che si misurò in un contest di pianisti. Quando il presentatore menzionò la parola «Italie» si sentirono molti fischi: dopotutto erano passati appena quattro anni dalla fine della guerra, e in Francia non avevano scordato il nostro maramaldesco intervento del 1940. Poi però l’elegante musica del nostro pianista mise a tacere i fischiatori; alla fine applaudirono tutti. Il successo si ripeté ancora quando, in un altro concerto, il nostro rappresentante tornò nuovamente sul palco, per suonare in trio, accompagnato da Gilberto Cuppini – che era a Parigi per difendere i colori svizzeri nel gruppo di Osterwald – e da Kramer, che si mise al contrabbasso.
La brillante carriera di Armando Trovajoli cominciò proprio in quei giorni. peccato che poi il pianista non abbia voluto più saperne del jazz.
I concerti alla Salle Pleyel non costituivano le uniche jazzistiche emozioni che Parigi poteva offrire in quei giorni ai pellegrini del jazz arrivati dai quattro angoli d’Europa. A notte inoltrata ci pigiavamo nelle caves di St. Germain des Prés, dove si suonava in jam session fino al mattino. Quei locali erano divenuti famosi per l’assidua frequentazione di certi grandi sacerdoti dell’Esistenzialismo, ai tempi in cui era possibile a qualche musicista di jazz con inclinazioni letterarie di farsi fotografare insieme a Sartre. Ora però quei personaggi non c’erano più: a ricordare i tempi eroici di due o tre anni prima restavano molte ragazze dagli occhi bistrati e il maglione nero che cercavano di somigliare il più possibile alla papesse Juliette Gréco. Noi comunque non avevamo occhi e orecchi per i nostri amici jazzisti, che potevamo toccare con mano.
Sul piccolo palco del Club St. Germain suonava chiunque ne avesse voglia. Ogni sconosciuto poteva misurarsi coi giganti d’oltre oceano, e magari giovarsi dell’accompagnamento di Max Roach, che in quei giorni aveva lasciato tutti allocchiti. tra quelli degli sconosciuti mi è rimasti impresso un nome: quello di Ronnie Scott, che alcuni anni dopo avrebbe aperto a Londra un locale di jazz che, dopo incerti inizi e un trasloco, sarebbe diventato l’ombelico del mondo del jazz europeo.
Rammento anche una jam session molto significativa perché diede la misura, a tutti noi spettatori, del divario che separava ormai i musicisti della nuova generazione, i boppers, dai jazzisti affermatisi prima della guerra: mi riferisco all’incontro di due trombettisti: il famoso «Hot Lips» Page, già gloria del jazz di Kansas City, e Kenny Dorham, un bopper che nessuno in Europa conosceva ancora e che era arrivato da New York col quintetto di Parker. maggiore incomprensione fra due solisti impegnati a suonare insieme non può essere immaginata: era un indisponente dialogo fra sordi.
Al Club St Germain feci la conoscenza con Boris Vian: era un giovane ingegnere squattrinato, che scriveva cose che nessuno leggeva, e che per arrotondare i guadagni (o forse solo per divertimento) suonava jazz tutte le sere nelle cantine della Rive Gauche. Soffiava dentro una strana tromba con la campana rivolta in alto, trovata presso chissà quale rigattiere: lui la chiamava «trompinette». Allora scambiammo solo poche parole al tavolo di Delaunay (Vian era indaffaratissimo perché stava accordandosi con alcuni musicisti per una seduta d’incisione fissata per il giorno dopo, del cui buon andamento era responsabile, e poi voleva soffiare dentro la trompinette); anni dopo ci saremmo azzuffati a distanza. (Io avevo parlato male di un certo disco di fats Waller che a lui piaceva, e mi ero visto sfottere un po’ troppo pesantemente sulle pagine di «Jazz Hot», che ospitava una sua divertente rassegna della stampa: ci fu uno scambio di lettere, qualche battuta sulle rispettive riviste, e poi tutto finì a tarallucci e vino. «Je sais que tu es un chic type», fu la conclusione di Vian)
Quella sera, in mezzo a quella calca, Vian mi fece una notevole impressione. Era chiaro che si trattava di un tipo fuori del comune; mi domandavo anzi che cosa ci stesse a fare, lì, con quella trompinette. Ora, a distanza di anni dalla sua morte improvvisa, dopo che il suo talento letterario è stato ampiamente riconosciuto, mi viene qualche volta fatto di ricordare quel nostro incontro e contemporaneamente quello, avvenuto negli stessi giorni, co un altro giovanotto che aiutava Delaunay a mandare avanti la baracca del festival: Eddie Barclay. Barclay non mi fece proprio nessuna impressione. Eppure, cominciando col jazz, avrebbe messo su a poco a poco un impero discografico che oggi vale molti miliardi.
Quando tornai a casa, in Italia, avevo le orecchie piene di jazz: quello che avevo ascoltato avrebbe dovuto bastarmi per mesi. E mi bastò. Per lo meno fino a quando non arrivò a Milano Louis Armstrong coi suoi All Stars.