«Fatha» Hines

To stop the show, fermare lo spettacolo: secondo gli americani, che di spettacoli si intendono più di ogni altro popolo, è questa la prerogativa delle «superstars», degli «animali da palcoscenico». Costoro «fermano» lo spettacolo perché ricevono tanti applausi che non è possibile per chi lo dirige andare avanti col programma. Il pubblico non vuole il «prossimo numero», vuole la ripetizione di quello precedente…
Bene, in tanti anni ho visto un solo musicista di jazz fermare letteralmente uno spettacolo, impedirne la prosecuzione: Earl Hines. Accadde a Sanremo nel 1965, poco dopo – si badi bene – il successone da lui ottenuto al Little Theater di New York, che aveva segnato il suo rientro in scena come solista di pianoforte.
In realtà, prima di quei mesi, Hines non si era mai considerato in primo luogo un pianista; si era sempre sentito un caporchestra, un entertainer da locale notturno, un uomo di spettacolo tuttofare: e il guaio è che, nonostante la sua recente fortuna come concertista di pianoforte, ancora oggi non nutre sufficientemente il suo «ego» se non facendo appello a quella deteriore showmanship che deve aver messo a punto partecipando ai floor shows del Grand Terrace, il lussuoso cabaret di Chicago in cui lavorava negli anni Trenta.
Eppure non ci voleva molto a capire che Hines era e resta grande solo come pianista. Dopo la tournée europea in cui il concerto di Sanremo era incluso, Hines ricevette infatti molte proposte per esibizioni quale solista. Di una di queste proposte traemmo vantaggio anche noi, in Italia.
Sta di fatto che, dopo aver trascorso quasi un mese a Roma (suonando in un locale di Trastevere) e aver dato anche un concerto a Scandiano, in quel di Reggio Emilia, Earl Hines approdò a Milano e quindi a Lecco, per darvi due concerti, rispettivamente nelle sere del 5 e 6 marzo 1966, in due giorni liberi fra una tournée in Svizzera e una in Inghilterra.
Il concerto milanese era semi privato: ebbe infatti luogo al Circolo della Rinascente, non nuovo a simili esperienze.
Quello di Lecco era invece pubblico e solenne: inaugurava, al Don Rodrigo, una Rassegna di jazz (che poi si fermò subito…).
Furono due successoni. Di più, furono due successoni significativi e, a loro modo, istruttivi.
Hines, si sa, è un gigante del jazz; a mio parere, non ha rivali neppure oggi fra i pianisti, dal momento che Art Tatum, Fats Waller e Bud Powell non sono più di questo mondo, e considerato che Oscar Peterson lo supera soltanto dal punto di vista della tecnica. Ma non è solo questo (e basterebbe, per un pioniere famoso da oltre cinquant’anni); Hines costituisce anche una lezione, che non viene raccolta ma che fa riflettere. Quando suona solo, rappresenta infatti, più di qualunque altro, la vivente dimostrazione che il jazz è veramente grande quando sa essere anche entertainment, se proprio vi dà fastidio la parola spettacolo. Con la sua musica che appartiene a un’epoca lontana (l’età del jazz del Grande Gatsby, nientemeno), ma che appare straordinariamente fresca e viva, sembra voler illustrare le ragioni per le quali il jazz non ha più lo status di un tempo, sembra voler spiegare perché tanta parte del pubblico gli ha voltato le spalle, e perché da anni si parla di una sua crisi.
«La musica è una cosa, e la politica è una cosa completamente diversa», gli ho sentito dire a chi lo intervistava, dopo il concerto milanese. Se glielo avessero chiesto avrebbe probabilmente aggiunto che per lui la musica è anche gioia di vivere, esperienza festosa, da trasmettere al pubblico. «Se un musicista non riesce a farsi apprezzare dal pubblico» mi disse ancora, in quei giorni «non può prendersela con nessuno. E’ colpa sua. Tu sei qui col tuo piano e lì c’è il pubblico: se questo non ti applaude con chi vuoi prendertela? A meno che il piano non sia scordato… «
La musica vuol dire per lui, prima di molte altre cose, belle melodie. Melodie logiche e piacevoli: e quindi comprensibili. Richiesto di un parere circa le canzoni del passato confrontate con quelle attuali, fu eloquentissimo. Canticchiò, scandendo chiaramente le parole e sottolineandone il significato, un paio di famosi standards: These Foolish Things, Honeysuckle Rose, e poi qualche frase pescata a caso, qua e là. «Vedete, sono delle piccole storie che hanno un senso compiuto e che si stanno ad ascoltare. Certi pezzi di oggi non raccontano proprio nessuna storia», concluse, ripetendo senza saperlo ciò che ci aveva detto anni prima il suo antico amico Louis Armstrong.
In verità, ascoltando questo magnifico pianista che contraddice clamorosamente alla legge che vuole che i jazzmen siano finiti a trent’anni o poco più, non riesce facile disgiungere l’ammirazione per la sua superba tecnica strumentale, per la sua irresistibile comunicativa, per quel suo personalissimo stile, da un acuto senso di nostalgia per un tempo lontano che non tornerà più.
Earl Hines però non è, a differenza di Armstrong, un nemico dei jazzisti moderni: non per nulla la sua grande orchestra del 1943 è considerata da molti la culla del bebop, non foss’altro perché vi militarono tra gli altri degli innovatori come Charlie Parker e Dizzy Gillespie. A questo proposito però Hines non vuole darsi le arie del precursore o dello scopritore di talenti. «Nessuno di noi» mi ha confessato «dava molta importanza allo stile di Parker e di Gillespie, che pure era identico a quello più tardi conosciuto dal mondo intero.
Inoltre nessuno di noi aveva sentito la parola «bebop»: il nome venne dopo. «Tuttavia non sottovaluta la propria influenza sui pianisti delle generazioni successive. Quando gli chiesi se riteneva fondata l’opinione secondo cui lo stile pianistico moderno (io allora mi riferivo al bebop) deriva in gran parte dal suo, non si atteggiò a falso modesto. Mi disse uno «Yeah» molto convinto e molto risonante.