Un viaggio in USA

Il mio primo incontro col jazz, a New York, non avrebbe potuto essere più traumatizzante. Avvenne una sera di lunedì, il Io maggio 1967, allo Slug’s, un postaccio in una delle più luride strade del Lower East Side, dove non avrei certo il coraggio di mettere piede da solo. In nessuna città del mondo avevo infatti ancora visto un così squallido locale e dei luoghi tanto sinistri: avrei imparato poi che a Manhattan ci si può trovare da un momento all’altro, se solo si imbocca una certa strada, o si svolta un angolo, o si fanno cento metri in più, in zone altrettanto miserevoli e sciagurate.
Allo Slug’s quella sera erano di scena Sun Ra «and his Astro Infinity Music» «Suona solo il lunedì, e non si può perdere», mi aveva detto al telefono Alan Bates, con cui dovevo comunque incontrarmi per mettere a punto qualche dettaglio del Festival del jazz di Lecco, in programma per novembre. Ci saremmo potuti vedere lì.
Appena entro allo Slug’s, un negro barbuto, accovacciato sullo sgabello del bar, mi agguanta un dollaro e mezzo (c’è quasi sempre da pagare un’«admission», nei locali jazzistici) e subito si disinteressa di me; posso sedermi dove voglio, magari anche vicino all’orchestra, dove sono ammassate una trentina di persone, quasi tutti negri, alcuni dei quali emettono urla belluine. Sun Ra è seduto al piano, paludato in una tunica luccicante, forse africana, forse no. Intorno a lui, sistemati dove possono (non c’è un podio per l’orchestra: giusto il fondo di quel tetro stanzone che sembra un garage smesso e che si chiama Slug’s), ci sono i suoi undici musicisti: hanno in capo dei bianchi cappellacci di foggia africana, e vestono delle corte tuniche trapuntate di paillettes, buttate sopra delle camicie colorate, a bolloni bianchi, come quelle che portano i gitani di Granada. I batteristi sono due: un terzo musicista – Sir Harold – percuote furiosamente, stando in piedi, un alto tamburo africano da cui spunta a malapena la sua testa: quanto agli altri, cambiano di volta in volta strumento, che può essere un sassofono, oppure un violino cinese, o una specie di traccheballacche in versione africana, o chissà che altro. Fatto sta che l’orchestra spesso non fa altro che del ritmo: tutti percuotono tamburi o legni, magari per un quarto d’ora filato. E allora vi sembra proprio di essere nella giungla: è musica sostanzialmente africana quella che sentite, però ha uno swing indemoniato. Poi gli strumenti cambiano: ora sentite insieme tre tamburi e due contrabbassi, ora viene il momento dei sassofonisti, che urlano secondo la non grammatica del free jazz, dimostrando di essere tutti degli ammiratori di Archie Shepp: uno di loro, l’altosassofonista Danny Davis, è bravissimo. Poi viene il turno di Eddie Gale, trombettista di fuoco. Sono tutti nomi per me nuovissimi, ma ognuno meriterebbe un LP tutto per sé, mi dico.
A un certo punto Sun Ra si alza, si ritira dietro una tenda, e dopo un poco ricompare: ora ha una tunica d’oro e regge in mano un sole di metallo, che tiene dinanzi alla faccia, standosene immobile, mentre i tamburi fanno un fracasso del diavolo:
Chissà se Sun Ra crede veramente in ciò che fa? Quando gli parlo mi sembra un ometto mite e gentile, senza alcuna velleità di fare il Dio Sole. Comunque è chiaro che la sua orchestra esegue un rito, un cerimoniale, e che le apparizioni del Dio Sole sono importanti. Tanto è vero che Sun Ra se ne sta fermo, in piedi, in mezzo alla sua orchestra, reggendo il suo sole di metallo dinanzi alla faccia per un buon quarto d’ora; poi se ne va dietro la tenda, cambia tunica, e riappare ancora col suo sole raggiante, che manda bagliori.
lo sono allibito: non ho mai sentito e visto niente del genere. Gli amici che sono con me, quasi tutti ignari di jazz, sono addirittura annichiliti, e per giorni e giorni mi rimprovereranno per non aver più saputo procurare loro uno spettacolo altrettanto sconvolgente. Però a una certa ora mi lasciano, ahimè, quasi solo: i sassofonisti free si sopportano fino a un certo punto. A ogni modo non mi pento affatto di essere rimasto: perché alla fine i fiati (sono quattro: due sassofoni, una tromba e un flauto) se ne vengono in mezzo al pubblico, dall’altro lato del locale, e improvvisano la più furibonda cacofonia che io abbia mai ascoltato: per qualche istante escono anche a suonare in strada, e la scena, in mezzo a quelle catapecchie abitate in gran parte da portoricani e da negri, sulle cui facciate pendono, come delle budella da un ventre squarciato, quelle scale di ferro che sono quasi il simbolo della vecchia New York, quella scena, dicevo, è allucinante.
E’ musica, questa? Forse si tratta di un happening: certo è che vi prende allo stomaco, vi scuote come un ciclone. Se penso all’asfittico, insensato free jazz di qualche musicista europeo desideroso di essere à la page, e lo paragono a questa musica feroce, mi viene da sorridere.
A Sun Ra, che è anche un buon pianista, esterno alla fine la mia ammirazione: ma non gli dico che la sua musica è stata ottima perché onestamente non mi sembra tale; gli dico che è stata per me una straordinaria esperienza.
Dopo quella sera, fui costretto per qualche giorno a ignorare il jazz: ero arrivato negli Stati Uniti con un programma fitto di impegni, in cui nella prima settimana riuscii a malapena a incuneare degli incontri con George Wein e con Nesuhi Ertegun, il proprietario dei dischi Atlantic, e dei colloqui telefonici con George Avakian, che avrei dovuto incontrare perché era desideroso di parlarmi di Charles Lloyd, che in quel tempo era la pupilla dei suoi occhi. Ma io dovevo spostarmi da New York e andare, tra l’altro, a Filadelfia.
Filadelfia è una brutta città, come molte delle città degli Stati Uniti, ed è piuttosto deprimente: sarebbe stato un problema passarvi una serata (e digerire la solita bisteccona che rappresenta il non plus ultra della culinaria americana) se allo Showboat, il più noto locale jazzistico della città, non ci fosse stato un programma abbastanza interessante: Gabor Szabo e il suo quintetto.
Lo Showboat è in Lombard Street, che prima della guerra era zeppa d’italiani e ora fa parte del ghetto negro: così anche in questo locale i negri sono parecchi.
Dopo Sun Ra, però, il chitarrista ungherese mi appare scialbo: è bravo, bravissimo, ma è troppo pittoresco, troppo ruffiano, se mi si passa l’espressione. Il suo miglior pezzo è infatti spagnoleggiante: si intitola Los Matadores. Con lui è un altro bravo chitarrista bianco, Jimmy Stewart.
Quando torno a New York, so già come passerò la prima serata ‘libera’: al Pookie’s Pub, in Hudson Street, al Village, a sentire Charles Mingus. Il Pookie’s è un altro locale scalcinato, non però sinistro come lo Slug’s. un budello buio e stretto, reso ancor più stretto dal bancone del bar, a fianco , del quale c’è il podio per l’orchestra. Dietro il podio si apre la porta di un gabinetto, sulle cui pareti mani ignote hanno tracciato (oltre ad altre cose) scritte di questo genere: «Bird lives », «Immortal Bird ». Charlie Parker è davvero un mito immortale per i frequentatori dei localetti del Village…
Mingus è enormemente ingrassato e si è lasciato nuovamente crescere una corta barba: da quel che dice sembra proprio più matto che mai. Mi saluta con grande cordialità e mi racconta di tutte le angherie da lui subite: sua moglie, una bella signora bionda che parla bene l’italiano (ha vissuto a Roma a lungo), commenta malinconicamente: «Lui è molto sospettoso…». Come se non lo sapessi!
Comunque Mingus è sempre Mingus, un musicista formidabile. Benché il suo complesso sia ora ridotto ai minimi termini (c’è il trombettista Lonnie Hillyer, l’altosassofonista Charlie McPherson e, naturalmente, Dannie Richmond alla batteria) la musica che ascolto è inconfondibilmente sua, così beffarda, colorita, acre. Tra un pezzo e l’altro Mingus trova modo di informare il pubblico che durante la sua ultima tournée europea e i suoi concerti fra i suoi amici italiani (quorum ego) subì gravissimi torti da George Wein. Però è bonario: quando faccio per andare, prega me e i miei amici di rimanere a sue spese (per ogni «set» bisogna ribere due whisky e quindi ripagare: in America si beve e si paga in continuazione).
Alla fine riesco ad andarmene: a pochi passi dal Pookie’s c’è l’Half Note e vorrei prendere due piccioni con una fava. Giunto davanti all’ingresso però cambio idea: è di scena il sestetto di Joe Henderson e io sono ormai viziato. Anche il quintetto di Donald Byrd, che tiene banco al Five Spot, non ha il potere di commuovermi. Forse però non entro perché anche l’aspetto del Five Spot è alquanto sinistro (sul tendone d’ingresso c’è uno squarcio di un buon metro con la stoffa che penzola; ve lo dico per darvi un’idea) e la zona in cui si trova è, a quell’ora di notte, ben poco rassicurante.
Mi guardo in giro: un paio di barboni dormono sui marciapiedi, mentre la gente li sfiora coi piedi senza degnarli di uno sguardo. Un junkie (un drogato) dallo sguardo allucinato mi chiede farfugliando una sigaretta, un altro si appoggia inebetito a un cancello, e di poliziotti – che nel Village non mancano quasi mai – non vedo traccia.
Meglio andare a dormire: dieci minuti di taxi mi riportano nell’altra America, quella ufficiale, quella dei dollari, quella dei grattacieli, quell’America che non vuole aver niente a che fare coi musicisti di jazz, e che riesce a dormire i suoi sonni tranquilli a pochi blocchi di distanza da Harlem, e Dio solo sa come faccia. un’ America dura anche questa, badate: un’America che assomiglia ben poco a quella che i film di Hollywood ci hanno presentato.
Ma forse voi volte sapere, a questo punto, qual è la musica preferita da quest’America ufficiale e asettica, che trasuda dollari e passa le sere davanti al televisore a vedere programmi che spesso – fanno rimpiangere i teleromanzi girati in via Teulada. Bene, questa America ha ancora nel cuore la musica leggera degli anni Trenta e Quaranta: uno swing edulcorato e piacevole, in cui gli archi soverchiano i sassofoni, presentando le ballads che tutti noi conosciamo a memoria. Questa musica la si ascolta dappertutto: la si sente negli aeroporti, nei ristoranti, negli atri degli alberghi, negli ascensori dei grattacieli, nei grandi magazzini, e persino in qualche ufficio, Trasmessa attraverso la filodiffusione, vi accompagna per tutte le ore del giorno, facendovi sentire un personaggio da film musicale, che però non ha niente di particolarmente divertente da fare.
Naturalmente anche negli Stati Uniti c’è il rock and roll: non mi pare però che lì abbia il ruolo che ha in Italia e più in generale in Europa. Tanto è vero che nei juke box lo si ascolta di rado: si ascolta invece, il più delle volte, qualche disco della Tijuana Brass di Herb Alpert, che sul finire degli anni Cinquanta è veramente l’orchestra più popolare d’America.
Ma torniamo al jazz. Consentitemi quindi di presentarvi a questo punto il Village Gate, il più grande locale jazzistico di New York. Ci stanno qualche centinaio di persone, che se la cavano con cinque dollari o giù di lì se stanno ad ascoltare un solo «set»: se vogliono riascoltare le orchestre (di solito sono due per sera) devono ribere e ripagare, come vuole la regola. Il Village Gate è in Bleeker Street, a due passi dal Café au go-go e dai localini di burlesque (che è una specie di squallido e approssimativo spogliarello che lascerebbe indifferenti i marinai in libera uscita): in quella strada, come del resto in altre del Village, pascolano gli hippies locali, che non hanno affatto l’aria civettuola e sofisticata che hanno quelli che a Milano o a Roma imitano gli elegantoni di Carnaby Street: questi americani sono irsuti e selvatici, spesso hanno la faccia dei delinquenti. Non per nulla in Bleeker Street, di sera, caracollano in permanenza dei bellissimi policemen a cavallo, armati di pistoloni e sfollagente, a cui i cittadini per bene sono talvolta costretti a rivolgere le proprie lagnanze. «Officer! Officer!» implorano; e magari poi raccontano di essere stati borseggiati.
Il manifesto del Village Gate è promettente: annuncia l’orchestra di Maynard Ferguson e il trio di Chico Hamilton.
Sopra, al Top of the Gate, suonano Marian McPartland e Tete Montoliu. Bene: con tre dollari mi assicuro un posto a uno dei numerosissimi tavolini che ingombrano il locale, uno a ridosso dell’altro. Il pubblico è abbastanza distinto: i negri sono numerosi ma in netta minoranza.
Ferguson dirige una grossa orchestra di formato standard, che ha ricostituito da poco; fra i musicisti riconosco i trombonisti Slide Hampton e Jimmy Cleveland. Però non resto affatto impressionato: sento pochi assoli, così così, e gli arrangiamenti, anche quando recano la firma di Oliver Nelson, sono abbastanza convenzionali. Quanto a Ferguson, è un tipo eccitatissimo che non sta fermo un istante (apprenderò in seguito che è caduto nella trappola degli allucinogeni): prende la maggior parte degli assoli ma non fa scintille. Non sento neppure uno di quei sovracuti che gli diedero la gloria ai tempi di Stan Kenton.
Con Chico Hamilton tutto cambia. Ecco un ottimo complesso: moderno, aggressivo, scattante. Però non è un trio, come era scritto sul manifesto, ma addirittura un ottetto, praticamente inedito: il vibrafonista Roy Ayers e l’altosassofonista bianco Arnie Lawrence – due scoperte recenti, di cui si parla molto a New York – sono straordinariamente bravi. Si tratta di jazz molto avanzato, a momenti addirittura free: Hamilton mi dice che spera di tenere insieme il complesso a lungo, ma è chiaro che non è in grado di assicurare ai suoi musicisti un guadagno sufficiente. Il trombonista Slide Hampton suona anche con Ferguson, e Lawrence – con cui ho voluto complimentarmi vivamente – suona un po’ con tutti. «Ho tre figli» mi dice «e se voglio dar loro da mangiare devo suonare in più orchestre contemporaneamente.» Chico mi dà il suo indirizzo: ha una gran voglia di venire in Europa. E chissà che un giorno non si possa farlo venire davvero: è uno dei più bravi, ed è un uomo simpatico.
Purtroppo quando deciderò di farlo venire in Italia, qualche anno più tardi, sarà incredibilmente decaduto (e dovrò protestarlo…).
Il Village Vanguard è un’altra tappa obbligatoria per il jazzofilo a New York. Quando ci vado per la prima volta, il cartellone, scritto a penna (il jazz è povero, nella ricchissima America), reca i nomi di Coleman Hawkins e Roland Kirk.
Per cinque dollari non c’è male davvero.
Il locale è buio e tutt’altro che elegante, come la maggior parte degli altri: ha una forma triangolare e può contenere una cinquantina di persone alla volta. Hawkins suona col suo quartetto: al piano siede Barry Harris, al basso è Ron Carter, che ha lasciato Miles Davis e si è fatto crescere un paio di baffoni che gli conferiscono l’aspetto di un lanciere del Bengala, e alla batteria c’è Eddie Locke. Hawkins sembra in migliori condizioni di salute di quando lo vedemmo a Milano in novembre, e suona da par suo, magnificamente.
Pure i suoi uomini sono eccellenti. Anche Roland Kirk capeggia un quartetto, in cui il personaggio più notevole è il pianista Lonnie Smith. Ai suoi usuali strumenti ne ha aggiunti dei nuovi: un clarinetto e uno strano zufolo di legno con appese delle nacchere; inoltre, al flauto ha applicato uno strano aggeggio amplificatore che gli consente di trarre dei suoni addirittura laceranti e un’infinità di effetti elettronici stranissimi. Kirk ne fa, come al solito, di tutti i colori, ma fa anche molto buon jazz: direi che suona meglio di quanto non abbia fatto le volte che l’ho ascoltato in Italia. Ad applaudirlo c’è anche, fra il pubblico, Gil Evans, che siede in un angolo in compagnia di sua moglie, una grossa matrona negra.
Da quella sera sarebbero passati vari giorni prima che potessi ancora ascoltare del jazz: solo quando passai per Detroit guardai pieno di speranza la pagina degli spettacoli di un giornale locale. A Detroit, in verità, pensavo che avrei potuto ascoltare qualche buon complesso: è la quarta città degli Stati Uniti, e i negri son più di un milione. Macché: il giorno dopo avrei potuto andare a teatro a sentire Ray Charles, e due giorni dopo sarebbe arrivato Wes Montgomery, ma allora la capitale dell’automobile, che era anche una delle capitali del rock, non ebbe proprio niente per me.
Quando tornai a New York non avevo che l’imbarazzo della scelta. E per la prima sera optai per l’Half Note, in cui si esibiva il quartetto di Jim Hall e Richie Kamuca. Purtroppo il locale è il più rumoroso fra quanti io abbia frequentato: tutti parlano ad altissima voce, forse contagiati da un pestilenziale cameriere tedesco che gira fra i tavoli con la pretesa di far da animatore, gracchiando a ogni istante: «Is everybody happy?». Però Hall suona splendidamente, come se nulla fosse, e anche Kamuca – il valoroso tenorsassofonista che diede lustro al jazz della West Coast – appare in forma eccellente. «Come fai a suonare così con tutto questo baccano?» chiedo a Jim. Ma il sorridente chitarrista mi spiega che è da poco tornato al jazz dopo essersi dedicato a lungo alla musica commerciale (si è sposato, e ha avuto bisogno di soldi) ed è quindi felice di suonare.
Poi mi chiede notizie di Franco Cerri e di altri amici italiani; infine mi presenta i proprietari del locale, che sono degli italo-americani e si chiamano Canterino. A papà Canterino, che viene a salutarmi con molto calore, asciugandosi le mani nel grembiule da cuoco, devo spiegare, facendo uno schizzo su un pezzo di carta, dov’è Potenza, da dove lui si è allontanato bambino. Quando me ne vado, mi imbatto in Art Farmer: suonerà nel locale la settimana successiva, e intanto è venuto a sentire il suo amico Jim.
Sono ormai passate più di due settimane da quando sono arrivato all’aeroporto Kennedy per scoprire che tutti i facchini all’aeroporto hanno la faccia dei musicisti di jazz, e comincio ad aver voglia di passare la sera in qualche locale elegante o per lo meno non miserevole: per il mio prossimo incontro col jazz, scelgo quindi il Basin Street East, nella zona-bene di Manhattan, a pochi blocchi dal Waldorf Astoria. Ma vengo punito: il pubblico elegante e il jazz non sono compatibili, evidentemente, in America. L’orchestra di turno è quella di Mel Lewis e Thad Jones, una delle migliori del momento, ma non fa nulla per dimostrare che la sua fama è meritata: ciò che sento per venti minuti è solo della musica commerciale molto ben fatta, cantata dalla prima all’ultima battuta da Brook Benton, un cantore negro, dignitoso ma convenzionale. Apprendo poi che per sentire l’orchestra fare del jazz autentico bisogna andare ad ascoltarla al Village Gate, i lunedì sera, ma i miei programmi non me lo avrebbero consentito. Forse sarei comunque rimasto al Basin Street per compensarmi del prezzo della consumazione ‘(un cartellino sul tavolo avverte che si’ deve bere o mangiare per il valore di almeno: dollari e mezzo) se alle dieci l’orchestra non se ne fosse andata dal podio annunziando che sarebbe tornata dopo una ora e mezza. Sospiro vedendo scomparire nel retro del locale solisti ben noti (riconosco, oltre ai leaders, il baritonsassofonista Pepper Adams, il trombettista Snooky Young, il pianista Roland Hanna, il bassista Richard Davis) e mi precipito al Village Gate per fare la conoscenza del nuovo quintetto di Horace Silver, brillante come non mai. Fra i solisti si distingue il trombettista Woody Shaw, che versa fuoco liquido dal suo strumento e che lascia su di me una profonda impressione; meno buono mi sembra invece il tenorsassofonista Tyrone Washington, che è un semplificatore di Coltrane:
Quando, quella stessa sera, tornato in albergo, trovo un messaggio di un caro e vecchio amico di ritorno da un giro in Europa: Toots Thielemans, il ben noto chitarrista e fisarmonicista belga che vive a New York da una quindicina d’anni e che ora è sulla cresta dell’onda come musicista di studio e compositore (ha avuto un successone con Bluesette). Ci incontriamo il giorno dopo in uno studio d’incisione, dove ritrovo anche Arnie Lawrence; sarà Toots che mi introdurrà in quel sedicente tempio del peccato che è il Playboy Club, dove siete serviti a tavola da bellissime e asettiche donne vestite da conigliette (il «peccato» è tutto lì), sarà ancora lui che poi mi farà incontrare molti musicisti portandomi nel loro covo, il Iim and Andy, un bar sulla 483 Strada, nei pressi di Broadway. : lì che ho reincontrato Zoot Sims, Phil Woods, Ernie Royal, Jo Jones, Louis Hayes, Pepper Adams e altri ancora.
Ancora a Toots devo se ho potuto assistere a una delle periodiche riunioni del sindacato musicisti di New York (il Local 802) che si tengono nel Roseland, la grande « balera » della 523 Strada che è citata da tutte le storie del jazz.
Però ai tempi di Fletcher Henderson era altrove; inoltre, ora al Roseland non si sentono più le big bands di jazz: se non erro vi si fa soltanto del rock. Per la 52a Strada, che per tanti anni fu il paradiso dei jazzmen, è addirittura una profanazione; ma tant’è: sulla «strada» c’è rimasto soltanto uno dei vecchi jazz spots, l’Hickory House (ci suona il pianista Billy Taylor), perché le case dov’erano gli altri – il Three Deuces, l’Onyx Club, lo Spotlite, lo Yacht Club, ecc. – sono state demolite per far posto a dei vertiginosi grattacieli.
Al Local 802 incontro altre conoscenze, come Manny Albam, o come un paio di membri dell’ orchestra di Herman, che mi informano che Woody dopo il suo ultimo giro in Europa ha perduto ancora una volta praticamente tutti i suoi uomini. Ma ora è di nuovo in piedi, e mi dicono che la sua ultima orchestra va benissimo. (Come faccia poi…) Per le ultime sere che mi restano da passare a New York non so proprio che cosa scegliere. Dopo molto pensare opto anzitutto per il Jimmy Ryan’s, dove vado a riascoltarmi il buon vecchio dixieland fatto da Max Kaminsky, Tony Parenti, Marshall Brown, Zutty Singleton, e da un giovanotto che suona il piano alla Jelly Roll e si chiama Donald Coates.
Il piccolo Kaminsky è un po’ appassito e Zutty dormicchia, ma Sister Kate è sempre Sister Kate: senza dire che a rendere la mia serata ancor più piacevole c’è quel simpatico chiacchierone di Marshall Brown che mi illustra, con l’entusiasmo che lo distingue, i suoi recenti concerti «didattici» con Lee Konitz.
Per ultimo torno al Village Vanguard dove c’è Bill Evans col suo nuovo trio: con Philly Joe Jones alla batteria, e un giovane bassista portoricano, Eddie Gomez, a me ancora sconosciuto. Bill è quel grande pianista che sapete ed è in forma brillante; chi però mi stupisce è il bassista, che è un altro La Faro: non ci vuole molto acume per predirgli un brillante avvenire. Evans del resto ne è entusiasta: mi dice che Gomez ha da poco terminato gli studi alla Juilliard School e che è proprio una sua scoperta. Conta di tenerselo stretto. Non mi pare invece che Philly Joe Jones ci stia bene, in questo entourage: sembra un batterista qualsiasi, che non sappia bene cosa fare.
Quando faccio per andarmene arriva barcollando quel bel tipo di Elvin Jones: mi solleva a un metro da terra e mi bacia con trasporto, sulle guance, come fa ogni volta che mi incontra. davvero piccolo il mondo del jazz! Piccolo davvero: me ne dà una conferma quella grande foto di Evans che fa un figurone su una parete del Village Vanguard: l’ha scattata mio figlio pochi mesi prima.
Quel piccolo mondo è ben poca cosa in quell’immenso mondo che è l’America: guai però se, in quell’immenso mondo che ha perduto la misura dell’uomo, non avessi potuto ritrovare quello piccolo, a me tanto familiare, in cui si può anche scegliere di morir di fame pur di fare la musica che si ama.