A Newport e a New Orleans

Nel luglio del 1969 mi capitò di assistere a uno dei festival del jazz di Newport: c’ero arrivato per aver vinto una specie di scommessa con George Wein. Pochi mesi prima, a Milano, avevo presentato un concerto del quartetto di Dave Brubeck con Gerry Mulligan: poiché non ci eravamo accordati sulla cifra da corrispondere a Wein (che inviava il gruppo dagli Stati uniti), avevamo concluso in questo senso: io avrei pagato a Wein la cifra richiestami e che era quella inizialmente pattuita fra me e lui; con l’intesa, aggiunse Wein, che se fossimo riusciti a esaurire il teatro, lui mi avrebbe pagato il viaggio di andata e ritorno per Newport dove avrei potuto assistere al festival del jazz allora in preparazione.
Il Teatro Lirico vendette fino all’ultimo biglietto, e io partii alla volta di Newport. Quando, alcuni giorni dopo, tornai in Italia, dopo aver compiuto una deviazione per New Orleans, stesi, a caldo, questa cronaca per la mia rivista: entrando subito in medias res:

«Questo è un rito voodoo; non ha niente a che vedere con la musica» commentò a un certo punto Bob Haggart mentre, assieme ad altri musicisti della World’s Greatest Jazz Band, attendeva fra le quinte che si sbloccasse la pericolosa situazione determinatasi nel corso dell’esibizione del complesso di rock negro Sly and the Family Stone. Questo era uno dei tanti gruppi rock o di rhythm and blues invitati da George Wein a partecipare alla sedicesima edizione del Festival del Jazz (ma qui un punto interrogativo si impone) di Newport, a cui la sorte ha voluto farmi assistere, e che e stato sicuramente il peggiore della serie: un festival assurdo, per il quaranta per cento del tempo addirittura insopportabile, che ha attirato a Newport una folla immensa di hippies desiderosi soltanto di baccano, pronti alla rissa, e vestiti nella stragrande maggioranza nel modo più bizzarro: come da noi – e non esagero affatto – non ci si veste neppure a carnevale. Sly and the Family Stone non facevano, al pari di vari altri complessi pop invitati a Newport, della musica; eccitavano deliberatamente quel pubblico, ingenuo e violento insieme, col più furibondo baccano che io avessi mai ascoltato, un baccano fatto a base di riff ripetuti per decine di minuti filati, mentre le chitarre elettriche, mostruosamente amplificate, abbaiavano senza posa, e i sassofoni grufolavano rabbiosamente. Il pubblico – erano ventimila persone almeno, ed erano quasi tutti giovanissimi – dava in smanie: c’era chi ballava, c’erano tantissimi che si dimenavano, tantissimi che urlavano, e c’era chi – si vedeva, si capiva – aveva una gran voglia di menar le mani. una situazione esplosiva, come noi, abituati al dolce clima mediterraneo e al pacioso buon senso italico, possiamo difficilmente immaginare. A un certo momento (la cerimonia voodoo andava avanti da un’ora e nessuno sapeva bene come farla cessare, per consentire a un altro complesso di farsi avanti) si temette il peggio: alcuni fra le migliaia di hippies rimasti fuori dell’arena cominciarono a bombardare, con dei razzi, il pubblico all’interno del recinto; poi a lanciare bottiglie contro gli uomini di servizio accorsi in difesa del pubblico; poi a fare a pezzi, un’asse dopo l’altra, la staccionata che recingeva l’arena.
«Stai qui dietro, questo e il posto più sicuro» mi disse a un certo punto Phil Woods, che si era arroccato assieme a molti altri dietro il grande palcoscenico, in alto, dove c’erano i camerini. Aveva, al pari di me e di molti altri, paura. Quei folli che stavano oltre il varco aperto nella staccionata sarebbero stati capaci di scatenare il finimondo, e i gorilla di Wein – una quindicina in tutto – che li stavano aspettando al di qua della breccia, armati di assi e di bastoni, il capo coperto da un elmetto, avevano tutta l’aria di essere destinati ad essere travolti in men che non si dica. Poi venne un provvidenziale acquazzone, che non fece scappare il pubblico (da noi ci sarebbe stato un fuggi fuggi di proporzioni apocalittiche) ma calmò i bollenti spiriti: e il massacro di Newport non ebbe luogo. Poté invece riprendere il concerto, che però proseguì lasciando fra le quinte l’altro gruppo rock in programma: il governatore del Rhode Island, presente alla scena, ne proibì infatti l’esibizione, per ragioni di ordine pubblico. Poté invece andare allo sbaraglio la World’s Greatest Jazz Band, seguita da Stefano Grappoli, che si chiedeva e ci chiedeva sgomento: «Ma che cosa posso fare io, adesso, con la mia piccola musica?»
ecco, questo e stato il momento di maggior tensione del sedicesimo festival del jazz («Ma e un festival del jazz, questo?» ci chiedevamo l’un l’altro) organizzato a Newport, ma non e stato il peggiore. La verità e che in tanti anni da che mi occupo di jazz, mai avevo sentito tanta cattiva musica, mai avevo assistito a una manifestazione programmata in modo tanto irrazionale, con così sublime noncuranza, mai avevo sentito tanto spesso e così urgente, così perentorio, il bisogno di un po’ di silenzio. Ma no: quando i chitarroni cominciavano a imperversare (ogni pizzicata di corda era un’esplosione, un tuono) si poteva andare avanti per due ore filate, perché il pubblico non mollava la presa: voleva sentire e risentire, e risentire, e risentire lo stesso riff, fino a ubriacarsi, fino a imbufalirsi.
Ma e ora che io riprenda il discorso dal principio, per raccontarvi brevemente quanto ho visto e sentito al sedicesimo Festival del Jazz di Newport, dove ero approdato, nel primo pomeriggio del 3 luglio. L’inizio era stato lieto, giacche il primo concerto (a cui però avevano assistito solo pochi fans) era jazzistico al cento per cento ed era cominciato benissimo, con una esibizione del chitarrista George Benson, addirittura entusiasmante. (John Hammond, fra il pubblico, si beava: e stato lui lo scopritore di Benson, come era stato trent’anni prima lo scopritore di Charlie Christian, e ora poteva dire a tutti: («Che cosa vi avevo detto?».) Poi erano venuti altri complessi, troppi comunque, tanto da far durare quel primo concerto nientemeno che sei ore e mezzo.
Il settetto di Sunny Murray fa del free jazz abbastanza ingegnoso, che il pubblico accoglie gelidamente: il leader comunque non meriterebbe di più, giacche ha confermato di essere un batterista di una mediocrità desolante. Freddie Hubbard, col suo quintetto, gli dà il cambio: fra gli altri sono con lui il tenorsassofonista Junior Cook, il pianista Harold Mabern, il batterista Louis Hayes. Fanno del jazz molto avanzato, a tratti quasi free, assai stimolante: la pungente tromba di Hubbard e più autorevole che mai. e’ ora il turno di Anita O’Day: non ha la grinta di Ella Fitzgerald o di Sarah Vaughan, si capisce, e sente il peso degli anni, però e molto brava. Quando fa dello scat – come fa, fra l’altro, nel travolgente Four Brothers finale – conferma di essere una delle tre o quattro più forti jazz vocalists oggi in attività. Le dà il cambio la grande orchestra di Sun Ra, che fin dal suo apparire dimostra di avere imboccato ormai la via dello show: l’ho vista e sentita due anni prima a New York, allo Slug’s, e mi ha fatto una grande impressione; ora la ritrovo radicalmente trasformata, profondamente deludente. Sarà l’aria di Newport, sarà perché Sun Ra ha deciso di accalappiare il pubblico dei gonzi, sta di fatto che oggi quella di Sun Ra non e più un’orchestra, ma una troupe di varietà. Tutti ora sono in costume; ci sono, sedute a fianco dell’orchestra, due donne che si dimenano ritmicamente e che hanno tutta l’aria di voler cantare (canteranno infatti, e saran dolori!), e Sun Ra suona l’organo, amplificato in modo così abnorme da produrre soltanto un rumore stridulo, assordante, che alla musica non assomiglia neppur da lontano. In realtà nulla di ciò che fa Sun Ra, oggi; assomiglia alla musica: e solo un bizzarro e pittoresco spettacolo la cui colonna sonora e un’assurda cacofonia senza capo ne coda. Sun Ra maneggia due soli metalli che ogni tanto sbatte uno contro l’altro con aria stolida, forse per ottenere effetti magici, prende degli assoli sull’organo che definire striduli e poco, poi qualcuno canta (le voci sono di tipo africano, ma a un certo punto sembra di sentire una tarantella napoletana), poi qualche altro sfila davanti all’orchestra esibendo dei quadri che gridano vendetta, e lo show finisce. Il pubblico fa buh!, buh!, nessuno applaude, e l’orchestra se ne va; forse ha voluto dare un saggio di musica astrale, fantascientifica (non per nulla si chiama Solar Arkestra): certo ha dato uno spettacolo molto stupido.
Phil Woods, col suo solito complesso, rialza di colpo il livello del concerto, e ottiene un meritato successone; poi lascia il passo al trio Young’ & Holt unlimited, che fa del jazz molto commerciale, ma con una certa dignità e comunque con notevole abilità. Il trio di Bill evans rimette ancora una volta le cose a posto: sia Bill che Eddie Gomez fanno le cose con la serietà e la bravura di sempre. Al trio si aggiunge poi il flautista Jeremy Steig, che e molto apprezzabile, anche se spesso, in omaggio alla moda, abusa degli – effetti elettrici, un poco alla Roland Kirk. Il quartetto di Kenny Burrell chiude la lunghissima serata, con un set molto professionistico ma non entusiasmante: Burrell e un chitarrista eccellente, però non molto personale, e non riesce neppur per un momento a cancellare l’impressione lasciata (su chi se ne ricorda, visto che ormai sono passate tante ore…) da George Benson.
Il pomeriggio successivo, dopo la esibizione di un irrilevante ma non turpe complesso rock, e in programma una chilometrica jam session, che mi ricorda i tempi aurei del Jazz at the Philharmonic. Sul palcoscenico, affollatissimo, ci sono molti personaggi di rilievo: trombettisti come Kenny Dorham, Howard McGhee e Jimmy Owens, trombonisti come Bennie Green e Albert Mangelsdorff, sassofonisti come Brew Moore (toh, chi si rivede: e tornato in America da poco e dimostra cent’anni), Paul Jeffrey, Charles McPherson, Cecil Payne; al piano c’è Hampton Hawes, al basso c’è il redivivo Slam Stewart (e un anziano e distinto signore coi capelli grigi e la barbetta caprina, ora, ma suona come ai suoi verdi anni, ai tempi del bop), c’è Ray Nance che suona il violino e c’è Art Blakey alla batteria; poi arrivano Jimmy Smith, che suona qualche pezzo all’organo facendo faville, ed Eddie Jefferson, che fa del vocalese così così. Sono tutti molto competenti, naturalmente; chi però mi impressiona più di tutti e Jimmy Owens, che prende degli assoli di tromba strabilianti.

Per la seconda serata e in programma soltanto il rock. un po’ perché voglio far due passi e non ho troppa fretta di arrivare al “festival field”, un po’ perché voglio godermi lo spettacolo della gente che si reca ad assistere al concerto, decido di avviarmi all’arena a piedi: sono due chilometri di strada ma il traffico e talmente lento (a Newport, nei giorni del festival, il traffico e sempre intensissimo) che le automobili vanno più piano di me. Subito però mi trovo in una situazione abbastanza imbarazzante: perché davanti, dietro, intorno a me camminano migliaia di hippies dall’aria selvaggia, in mezzo ai quali io devo fare pressappoco la figura del marziano. c’è chi ha il cappello da pirata, chi il turbante; chi la benda intorno alla fronte come gli indiani; chi ha una tunica cinese, chi una tunica orientale o africana; tantissimi hanno casacche che terminano a fettuccine, come Davy Crockett, molti hanno infilata intorno alla testa, a mo’ di poncho, una coperta da caserma (serve loro per dormire, sui prati di Newport e sui cofani delle automobili). Migliaia di ragazze assomigliano a Joan Baez; hanno i pantaloni a zampa d’elefante, i capelli lunghissimi, un poncho, e spesso una benda intorno alla fronte. Tutti sono serissimi, quasi nessuno parla. Sembra un carnevale mal riuscito.
Ma sono questi i nuovi americani? mi chiedo con un brivido. Be’, se non matureranno presto, c’è da tremare per l’America.
Pensavo di assistere a un concerto scarsamente stimolante, ma tutto sommato interessante, ma mi sbagliavo di grosso. Il cosiddetto hard rock e proprio una musica per ragazzi duri d’orecchio: tutti i musicisti sono più o meno in maschera, tutti hanno alle spalle un muro di amplificatori ad altissima potenza, e tutti fanno ricorso ai trucchi più risaputi e volgari per eccitare il pubblico. così Steve Marcus, così gli inglesi di Ten Years After, così il gruppo, pure inglese, che si chiama Jethro Tull guidato da quel bel tipo di Ian Anderson, il quale, in mancanza di meglio, ha avuto l’idea di suonare il flauto restando in difficile equilibrio su una gamba sola, mentre l’altra e ripiegata ad angolo come si vede nei disegni che illustrano la fiaba del piffero magico. I suoi capelli sono ricci, a raggera, ma questa a Newport non e davvero una stranezza: oggi quei capelli da istrice sono di moda, soprattutto fra i negri, e nessuno ci fa più caso. Anderson e solo un pagliaccio che mette malinconia, non tanta però quanta ne mette Roland Kirk, che sembra uno sguaiato clown che non si ricorda quasi mai del buon jazz. Come tanti, anche Kirk e in maschera: indossa una tuta di gomma nera, da subacqueo, che reca appiccicato sul dorso un faccione giallo; con lui suona un tale coi pantaloni a mezza gamba, sfilacciati, una casacca policroma, e in testa un lungo cilindro fatto di paglia intrecciata. A rendere lo spettacolo ancor più penoso, Kirk canta spesso e conciona ancora più spesso il pubblico: non si limita a invitare tutti all’integrazione razziale, ma dice molte stupidaggini, con piglio aggressivo. Alla fine conclude: Ora non dimenticherete chi e Roland Kirk!».
unica cosa buona della serata e il complesso Blood Sweat and Tears, che fa della pop music abbastanza convenzionale, ma la fa con gusto. Inoltre i musicisti sono più che competenti, e prendono degli assoli degni di attenzione.
Il pomeriggio del terzo giorno il programma promette jazz e rock alternati: una vera bazza. Cominciano i Newport All Stars, che però non mi impressionano troppo: suonano piuttosto «alla fiora», come dicono i nostri orchestrali, e non combinano gran che, anche se qualche assolo di Ruby Braff, di Red Norvo e di Tal Farlow si fa ascoltare con interesse.
Con loro c’è anche una brava cantante: la negra Mavis Rivers. Poi arrivano gli inglesi guidati da John Mayall. Anche loro sono in maschera; Mayall e vestito addirittura da cacciatore di frontiera: ha un giubbotto di pelle di vacca, il cinturone da cow boy, con coltellaccio e fondina per la pistola (ma dentro ci tiene le sigarette) e a tracolla ha una bellissima borsa di pelle di volpe, con tanto di pelo e con tanto di testa (di volpe, si capisce). Mayall canta il blues con voce magra, e suona l’armonica a bocca, alla Sonny Terry; fra i suoi c’è chi suona il flauto alla Kirk e il tenore alla Coltrane, e naturalmente il chitarrone ultra amplificato.

Tutto sommato, la mistura e abbastanza ingegnosa e non manca di gusto, come del resto si sapeva dai dischi, molto venduti anche in Italia. A Newport, Mayall ha avuto un successo trionfale, che ha ritardato di parecchio l’uscita di Miles Davis.

Anche Miles e stato contagiato dal vento di follia che sembra spirare nel mondo del jazz, e che fa crescere basettoni, barbe e baffoni a questo e a quello, e fa rizzare i capelli in testa (in senso non metaforico) a tanti, ricoprendo molti jazzmen, un tempo distintamente vestiti, di tuniche africane o di altri più civettuoli costumi. Miles e più sobrio:

si e inventato un costumino azzurro, attillatissimo, tutto chiuso da stringhe, che fa pensare ai coloni spagnoli dei tempi di Zorro, e si e pitturato la tromba di giallo-arancione e di nero. però, quando comincia a suonare, lascia senza fiato:

suona con violenza inusitata e su tempi velocissimi, disdegnando le ballads e le sottigliezze a cui ci aveva abituati (ma con quel pubblico che altro si può fare?), e ha chiesto al suo pianista, l’ottimo Chick Corea, di usare soltanto il piano elettrico. » lecito chiedersi se in un teatro, davanti a un pubblico competente (come sono i pubblici europei), seguirebbe la stessa politica. Del resto, non e facile giudicare il suo nuovo complesso, perché e azzoppato per l’assenza di Wayne Shorter: arriverà in ritardo (anche lui, ora, ha la barba), a concerto finito.

Dopo Miles, i Mothers of Invention, un complesso bizzarro, che fa, con straordinaria abilità tecnica e con intenzioni chiaramente satiriche, della musica spettacolare in cui si mischiano, alla rinfusa, rock, free jazz, musica moderna di vario tipo (un po’ di Stravinsky, un po’ di Stockhausen, e così via). » musica da circo, naturalmente, e lo si capisce, ancor prima che comincino a suonare, guardando i musicisti: Frank Zappa, il leader-chitarrista, ha barba e baffi di foggia antica e i capelli che finiscono, dietro la nuca, in una crocchia, all’indiana; uno dei musicisti ostenta con orgoglio un paio di baffi tinti di verde, e si potrebbe continuare. Ascoltando questo complesso, mi e tornata alla mente l’orchestra «zany» di Spike Jones, che faceva quattrini a paIate nell’immediato dopoguerra. Se questo e il cosiddetto «progressive rock», quello che si dovrebbe prendere sul serio, non c’è da stare allegri.
Il quinto concerto, serale, viene aperto dal quartetto capeggiato da Gerry Mulligan e Dave Brubeck. I due si incontrano sul palcoscenico, per la prima volta dopo parecchio tempo, solo qualche minuto prima dell’esibizione (lo so perché ero arrivato assieme a Mulligan, nella stessa automobile) ma non se ne preoccupano affatto: suonano, vergognosamente, «alla fiora», e non importa che Gerry prenda qualche assolo di gran classe. Il complesso, come tale, non vaI nulla, e Brubeck e addirittura indisponente coi suoi assoli martellanti, poveri d’idee quanto ricchi di intenzioni vellicatorie nei confronti della platea.
I Jazz Messengers, che vengono dopo, mi fanno tirare un sospiro di sollievo. Finalmente del buon jazz: di quel tipo bruciante e muscoloso a cui Art Blakey e fedele da anni.
Il complesso è radicalmente cambiato ora, e ha i suoi punti di forza, oltre che nel sempre fortissimo leader, nel focoso trombettista Woody Shaw e nel tenorsassofonista Carlos Garnetto Ancora jazz di alto livello col quartetto di Gary Burton, che qui si tiene piuttosto sul versante rock (Jerry Hahn suona ora una chitarra amplificatissima, ed e vestito con panni multicolori), ma si mantiene rigorosamente entro i confini del buon gusto. Poi arriva la caciara di cui ho parlato all’inizio, con Sly and the Family Stone, che potrebbero essere citati come esempio estremo di degenerazione del jazz, e che naturalmente riscuotono un successo apocalittico. Come Dio vuole, viene poi il turno della World’s Greatest Jazz . Band, che, come sapete, allinea alcuni dei più bei nomi del Dixieland: fra gli altri Billy Butterfield e Yank Lawson (tr.), Lou McGarity e Carl Fontana (trne), Bud Freeman (ten.), Bob Wilber (cl. e soprano), Ralph Sutton (p.) e Bob Haggart (cb.). E’ un’orchestra eccellente, straordinariamente professionistica, che ci riporta a una felice stagione del jazz: ma e difficile dimenticare il fracasso immondo e la cerimonia voodoo di poco prima, e pochi riescono a fare attenzione a ciò che fanno i simpatici senatori del jazz, che passano in rassegna alcuni famosi standards e alcuni classici del Dixieland, e che alla fine accompagnano in tre pezzi la cantante Maxine Sullivan. Quest’ultima e ora una donnina minuta, dai capelli molto grigi, che canta quasi come un tempo: tra l’altro riprende il suo Loch Lomond che fu il suo grande cavallo di battaglia, trent’anni fa esatti. Ma trent’anni sono tanti, nel jazz, e Maxine appare davvero «datata». Poi viene Grappelli (ora l’ipsilon e stato definitivamente sostituito dall’ originaria i), che, ancora sotto lo choc di cui vi ho detto, fa del suo meglio, suonando il violino come ai tempi di Django. Ma e come mettere le perle davanti ai maiali: «E’ la prima volta che ho avuto paura, in tutta la mia vita» mi confesserà poi Grappelli, tornando in albergo. (Tal Farlow, che aveva suonato con lui, e che ci aveva poi offerto un passaggio in macchina, era, altrettanto avvilito: «Credo che lascerò definitivamente questo mestiere» mi dirà poi.) Avrebbe dovuto concludere il concerto un altro complesso rock, chiamato The Savage Rose, ma Wein non si sente di correre ulteriori rischi imbufalendo nuovamente quella folla di dervisci: in cambio, dà loro O.C. Smith, cantante di blues di grande successo, che però canta come la maggior parte degli altri, ivi compresi quelli che non hanno successo affatto.

Domenica 6 luglio, pomeriggio, concerto dedicato a James Brown e al suo show. L’immensa platea rigurgita ora di negri: penso che su ventimila spettatori la metà siano di colore. Si spiega: James Brown e oggi il grande beniamino dei negri americani, e il suo e un tipico «Negro act «. Anche se si tratta di soul music abbastanza convenzionale, devo dire che comprendo e giustifico pienamente il successo di Brown e del suo show, che si svolge con una precisione cronometrica, con disciplina di tipo militare. Nello show non c’è solo Brown; c’è anche, per cominciare, la sua grande orchestra, che fa del rhythm and blues con notevole pulizia; poi c’è una cantante molto brava, che somiglia, nella voce e nello stile, ad Aretha Franklin, c’è un comico, ci sono quattro ballerine, e c’è un presentatore che da solo e uno spettacolo.

Anche se la musica e di grana grossa, se gli effetti sono cerati con perseveranza e meticolosità, e a dispetto dei suoi miti di natura sociologica (e uno spettacolo, ripeto, fatto per il pubblico negro, e tagliato sulla sua misura), mi inchino di fronte al professionismo e alla personalità davvero magnetica di James Brown, che infatti e stato praticamente l’unico ad essere apprezzato dai numerosissimi critici di jazz presenti a Newport, che si squagliavano invece regolarmente, come ai jazzmen, quando appariva in scena qualche complesso rock. (Si squagliavano, devo dirlo, anche quelli di «Jazz & Pop», a cominciare dalla simpatica «paesana» Pauline Rivelli, direttrice della rivista, che a un certo punto scomparve del tutto: come scomparve uno dei redattori della rivista «ecumenica» che per adeguarsi al clima del festival andava intorno ostentando una lunga palandrana militare, con tanto di alamari d’oro, appartenente a chissà quale vecchio esercito…) ultimo concerto cominciò malissimo, col ricupero, di cui proprio non sentivo la necessità, di The Savage Rose, complesso di hard rock chiamato addirittura dalla Danimarca, in cui dispiaceva molto vedere (pittorescamente mascherato come gli altri) colui che fu il miglior batterista di danese, Alex Riel. Nel complesso c’è una cantante che sta costantemente piegata in avanti ad angolo retto, canti o non canti, anzi urli o non urli, e se ne va attorno vestita da polinesiana sfoggiando la chioma riccia, a raggera, che va di moda (forse la «rosa selvaggia» è lei), e poi ci sono altri, vestiti da boiardi o semplicemente da matti. La musica è nefanda. Le cose vanno meglio quando entra in scena il grosso B.B. King a cantare e a suonare sulla chitarra il blues, o meglio a fare del rhythm and blues. Senonché passano i quarti d’ora e B.B. King non smette; quando poi, dopo un’ora buona, si tace per cedere il posto a Johnny Winter, si cade dalla padella nella brace. Quest’ultimo e un bianco, dalla faccia orrenda, con una lunga chioma da albino, sotto cui fa spicco una mise tutta nera, da necroforo: canta il blues in modo sguaiatissimo e stonatissimo, ma il pubblico impazzisce pure per lui e così ne abbiamo per un’altra ora sana, e poi ancora per un’altra mezz’ora perché rientra per duettare insieme con lui B.B. King. un supplizio: nel raggio di qualche miglio non si vede un solo critico, non un musicista; solo restano, a soffrire, quelli del sestetto di Herbie Hancock, che finalmente riesce ad andare in scena consentendoci di tornare ai nostri posti.

Nel sestetto ci sono solisti di vaglia: Johnny Coles (tr.), Garnett Brown (trne), Joe Henderson (ten. e iL), Al Heath (batt); tuttavia i risultati sono un poco deludenti. Gli assoli sono troppo lunghi (e vero che i nostri nervi sono ancora sotto choc per le due ore e mezza precedenti), e il clima e piuttosto convenzionale. Si torna a soffrire, – ma meno di prima, perché i musicisti sono dei professionisti – con Willie Bobo e il suo sestetto, che fanno una musica che si potrebbe definire rock di stile latino americano, piuttosto grossolana, ma digeribile. Poi di nuovo si respira (e una vera doccia scozzese, questo festiva!…) con l’apparizione della grande orchestra di Buddy Rich. Ritorniamo tutti in platea e ci godiamo l’orchestra, che suona molto bene, anche se non ha solisti di gran livello. Rich vi rimedia richiamando a un certo punto in scena Gerry Mulligan, che prende un lungo assolo con l’orchestra, addirittura fantastico, e per finire ci si mette lo stesso Buddy Rich, che prende il più impressionante assolo di batteria che nella mia lunga carriera di jazzofilo abbia mai visto. Alla fine, Buddy e abbracciato tra le quinte da tanti: da Mulligan, da George Wein, e non so da chi altri: l’avrei abbracciato anch’io.
Poi sono ricominciati i blues, coi Led Zeppelin, ma io sono fuggito, al pari di tanti altri. Anche senza averli ascoltati, potevo ormai tranquillamente dire (ma lo dicevano tutti) di avere assistito al peggior festival del jazz a cui abbia mai presenziato. Altro che «jazz & pop»; altro che «largo al rock»: se in America si insiste su questa strada, il jazz sarà ridotto al lumicino nel giro di pochi mesi.
Ma forse voi vorrete seguirmi nel pellegrinaggio che ho voluto fare nei giorni seguenti, quando, realizzando un antico sogno, me ne sono andato tutto solo a New Orleans. Da Newport, per arrivare nella «Crescent City», ho dovuto prendere tre aerei, e impiegare una giornata sana, ma ne valeva la pena, perché New Orleans e una città straordinaria, una delle più affascinanti che abbia mai visto.

Ma il jazz, mi chiederete voi, che ne e del jazz? Che ne è dei «sacri luoghi» che videro le leggendarie imprese di King Oliver, di Louis Armstrong giovinetto, di Jelly Roll, di Kid Ory? Quei luoghi, ahimè, non ci sono più. Ecco, lì c’erano le case chiuse di Storyville, c’era la Mahogany Hall, c’era il locale di Tom Anderson: oggi c’è un grande spiazzo riservato al parcheggio delle auto. Imbocco, con un poco di batticuore, Basin Street, il mitico «paradiso in terra», where the white and the dark folks meet, come diceva il famoso blues: ora e una grande arteria di periferia, percorsa dalle automobili e dai camion. Basin Street incrocia la grande Canal Street (ricordate Canal Street Blues?); a pochi metri c’è la South Rampart Street, un tempo prediletta per le parate stradali; pochi passi ancora, ed eccomi sulla Perdido Street; svolto l’angolo e sono sulla Gravier Street: sono strade immortalate da altrettanti blues famosi, ma ou sont! les neiges d’antan?
Tutto è cambiato a New Orleans, salvo che nel Vieux Carre, dove ancora si vedono le balaustre di ferro, a merletto, dove passano le carrozzelle, e dove, la sera, si ascolta ancora il vecchio buon jazz di New Orleans. Ma e qui che ho avuto la delusione più forte: perché a New Orleans, oggi, il jazz e solo una speculazione per i turisti, che son tanti, e che la sera si riversano a migliaia nella Bourbon Street, per assistere agli spettacoli di spogliarello (ci sono almeno tanti locali dedicati alle go-go girls quanti ce n’è a Parigi, a Pigalle) e magari per fare un salto a sentire il jazz. Uno dei posti più frequentati e la Preservation Hall, che non fa davvero onore al suo nome: é infatti una sporca stamberga di dieci metri per sei, dove alcuni vecchi musicisti (quelli che ho sentito io mi erano tutti sconosciuti) suonano degli standards non troppo vecchi (strano: a New Orleans non ho sentito neppure un classico del jazz tradizionale), applauditi calorosissimamente da un pubblico volenteroso e divertito, evidentemente al suo primo incontro col jazz, che si contende i pochi posti disponibili sulle tre rozze panche che, con lo scordato pianino verticale all’angolo, costituiscono l’unico arredamento del locale. Chi non trova posto sulle panche, si siede per terra, o si accalca, in piedi, in fondo alla stanza.
Come suona l’orchestra? Non male, ma neppure benissimo: come la maggior parte delle orchestre dilettanti europee, direi; solo con un suono più greve e spesso, e più caldo, ma anche un poco più rozzo. Non c’è da star lì molto: dopo tre pezzi ne ho abbastanza di quel jazz turistico, in cui non c’è un briciolo di fantasia creativa, e metto il naso qua e là. C’è la Dixieland Hall (la scena e simile a quella della Preservation Hall) e ci sono tanti altri localini, zeppi di turisti: i più eleganti sono quelli di Pete Fountain (nella sua orchestra suona ora il vecchio Eddie Miller) e di Al Hirt. Leggo gli annunci all’ingresso dei locali. Molti dicono pressappoco: «Qui si suona il vero jazz»; in uno leggo: «Qui suona Tizio, nato in questa città quarant’anni orsono» (capirai…). In un locale si esibisce un certo Oliver Vattelapesca: be’, mi credete se vi dico che quello spudorato ha fatto scrivere sui manifesti, dopo il suo vero nome, in piccolo, quello, in grosso, di King Oliver? Per i turisti va benissimo: forse qualcuno di loro ha sentito parlare di King Oliver, e certo praticamente nessuno di coloro che affollano la Bourbon Street sa che è morto da tempo.
Ou sont les neiges d’antan? Per ritrovarne le tracce vado al Museo del Jazz, nella Dumaine Street. E’ minuscolo, e contiene pochi cimeli: la cornetta di Bix, due cornette che appartennero ad Armstrong ragazzo, molte fotografie, e qualcos’altro di poco interesse. In un piccolo patio spagnolo, c’è una grossa pietra che appartenne alla demolita Mahogany Hall, il bordello diretto da Lulu White. Osservandola, provo la stessa sensazione che si ha guardando qualche autentico rudere romano: e la testimonianza di un tempo remoto, irrecuperabile. E’ tanto remoto, quel tempo, che a nulla approdano le mie affannose ricerche nei numerosi antiquari del Quartiere francese, dove fino all’ultimo mi illudo di trovare qualche oggettino autentico che mi ricordi la New Orleans di Buddy Bolden e di Storyville. Non trovo nulla. Mi devo accontentare di comprare, in uno dei tanti negozi di souvenir, un poster in cui c’è la scritta «La Nouvelle Orleans», e, in un angolo, in basso, è raffigurata una tromba.

Ecco, questo scrivevo nel luglio del 1959. Rilette ora, a distanza di vari anni, queste note reggono ancora, per me almeno: solo può stupire tanta animosità verso il rock, a cui ci saremmo dovuti assuefare.
Alcuni dei gruppi menzionati sopra, e che io incontravo per la prima volta, sono poi diventati celebri in tutto il mondo: così i Jethro Tull, i Blood Sweat and Tears, i Led Zeppelin, i Mothers of Invention; tuttavia i giudizi da me dati al primo impatto con la musica della maggior parte di loro non sarebbero stati rivisti, da me, col passare degli anni.
Una cosa non avrei mai immaginato: che il Miles Davis «elettrico», che esordiva allora, sarebbe di lì a poco degenerato per divenire un idolo dei giovani, di là e di qua dell’oceano: Avevo sopravvalutato, evidentemente, il pubblico europeo, oltre che Miles.

P.S. Tal Farlow ha mantenuto la promessa di non suonare più. Almeno, fino al momento in cui scrivo.