
Altri Festival
Indice
La brusca conclusione del Festival del Jazz di Sanremo non segnò affatto la fine delle grandi manifestazioni jazzistiche italiane: i tempi erano infatti ormai maturi per un trasloco in luoghi più propizi e anche per più ambiziosi progetti. Se ne aveva avuta la prova fin dall’ottobre 1964 quando, piuttosto estemporaneamente (il programma era stato concordato solo qualche settimana prima tra me e George Wein a un tavolo di un ristorante milanese), fu organizzata una «due giorni» jazzistica al Teatro dell’Arte di Milano, col quintetto di Miles Davis, un gruppo di Dixielanders («Pee Wee» Russell, Ruby Braff, Bud Freeman, ecc.), un quartetto con Roland Kirk e un complesso di boppers (Howard McGhee, J.J.Johnson, Sonny Stitt e altri), oltre a un gruppo capitanato da Franco Ambrosetti.
Quel piccolo festival aveva incontrato i favori del pubblico ma non aveva prospettive di prosecuzione visto che non godeva di sovvenzioni di alcun genere. Da questo punto di vista le cose promettevano meglio a Lecco, dove, nel 1967 – e cioè un anno dopo la fine di Sanremo – convocammo una nuova grande adunata dei nostri amici.
Lecco, a dire il vero, si rivelò subito una sede angusta e scomoda per una grande manifestazione jazzistica, ma consentì a me e a Maffei di non interrompere quella che era già una tradizione. Anche quella volta prendemmo accordi con George Wein, che aveva ormai deciso di estendere all’Europa la sua rete di grandi festival del jazz. Come sempre, il programma venne, nei limiti del possibile, concordato con lui e altri promoters europei; poi lui scritturava i complessi e i solisti, e ce li inviava accompagnati da tre o quattro road manager.
A Lecco invitammo dei pezzi grossi: ancora il quintetto di Miles Davis, allora in forma splendida, Sarah Vaughan, un gruppo di assi della chitarra – Barney Kessel, Jim Hall e l’allora giovane e ancora sconosciuto George Benson -, un gruppo di tradizionalisti guidati dallo stesso George Wein, pianista così così, ma che nessuno poteva licenziare (con lui erano Ruby Braff, Buddy Tate, Jack Lesberg e Don Lamond) e, novità delle novità, il gruppo di Archie Shepp: il primo complesso di free jazz che si fosse mai sentito in Italia.
L’organizzazione quella volta presentò dei problemi particolari, perché, per varie ragioni, si dovettero alloggiare i musicisti in un albergo di Milano e poi trasportarli in automobile e in pullman a Lecco. Detto così, pare una cosa da nulla; invece ci procurò molte ansie, soprattutto a cusa del comportamento delle nostre primedonne, e cioè Miles Davis e Archie Shepp (no, non Sarah Vaughan, che è persona di buon carattere e di buon senso, senza pretese o comportamenti da diva).
Quei due, Shepp e Davis, ci fecero stare sulle spine per ore: io non ho minimamente dimenticato gli affanni procuratici da Shepp e, meno che mai, il viaggio in automobile, da Milano a Lecco, con Davis e il suo allenatore di pugilato, che in quegli anni si portava sempre appresso per tenersi in allenamento (a Milano gli avevamo dovuto prenotare anche una palestra, dove però non mise mai piede). Conoscendo la fobia di Miles per le lunghe attese, e temendo come una sciagura una sua eventuale irritazione, eravamo partiti in un’ora che ci consentisse di arrivare a Lecco giusto in tempo per la cena e per un eventuale pennichella post-prandiale, in previsione della quale avevamo prenotato qualche camera anche a Lecco. Durante il viaggio però Miles mi fece sapere che avrebbe saltato il pasto («Quando mangio mangio, quando faccio l’amore faccio l’amore, quando suono suono», mi aveva soffiato in un orecchio, facendomi agghiacciare), cosicché noi saremmo arrivati in teatro almeno un’ora e mezzo prima dell’inizio del concerto.
Per quanto rallentassi l’andatura per ridurre al minimo l’attesa, finii per infilarlo nel suo camerino con tanto anticipo che ritenni prudente filarmela subito, senza spiegazioni.
Quanto a Shepp, in altre pagine racconto delle arrabbiature che ci procurò.
Il festival ebbe un esito felicissimo, anche se l’esecuzione di Shepp suscitò reazioni contrastanti (ma in grandissima parte negative), come del resto era prevedibile.
Nel recensire poi quell’esibizione per «Musica Jazz», Gian Mario Maletto scrisse poi:
«Dopo l’entracte è arrivato Archie Shepp ed è stato il finimiìomdo. A far da battistrada sulla scena è Jimmy Garrison, l’eccellente bassista del quartetto coltraniano, che ha sostituito l’annunciato Charlie Haden: il suo monologo condotto sulla falsariga di Introduction to «My Favorite Things» raccolta nel disco «Coltrane live at the Village Vanguard again!» è vibrante e colorito, ma nessuno può lontanamente immaginare quello che verrà dopo. A lui si unisce, dopo cinque minuti, il batterista Beaver Harris, ben noto per la sua milizia con Albert Ayler, che instaura un nervoso tempo di rumba, quindi entrano alla spicciolata il trombonista Grachan Moncur III, Archie Shepp, in pittoresca tunica africana, e infine l’altro trombonista, il bianco Roswell Rudd. La temperie espressiva è subito rovente, violenta, chiaramente provocatoria.
«Appare fuor di dubbio che, se Davis non si cura del pubblico, Shepp addirittura lo insulta con premeditazione («Melody Maker», a proposito del concerto londinese, parla di «defecation on the audience»!). La platea infatti, investita da quella massa d’urto, ha uno scossone, alcuni si alzano e abbandonano il teatro, altri protestano, si grida «buffoni!», «vogliamo un po’ di jazz!», ecc., ma gli applausi sovrastano i dissensi. Alla fine, dopo una ventina di minuti di furibondo collettivo, Shepp sembra placarsi: egli ha sciorinato con inaudita virulenza tutti i suoi motivi di contestazione ma adesso c’è il pepe di un acuto sarcasmo, e questo prende le forme di una sdolcinata citazione di The Shadow of Your Smile, che poi ricorrerà ancora nella sua lunga esecuzione. Una parte del pubblico tira un sospiro di sollievo, qualcuno grida dalla galleria: «Così si suona, perdio!». Ma è evidente che si tratta di una parodia della musica di consumo, e infatti, subito dopo, Shepp e i suoi si tuffano nuovamente nella loro orgia sonora (omissis). Detto questo non ho ancora detto nulla di Shepp e e della sua musica. Che è panica, ferina, «totale» (come sostiene con soddisfazione l’amico Giorgio Gaslini, ascoltatore fra i più entusiasti), che ti investe e ti scuote fin nelle più riposte fibre e ti lascia esausto. Non si tratta, come molti ascoltatori superficiali hanno creduto di ravvisare, di un’ operazione astrusa. Shepp, è vero, ha calcato la mano rispetto alla più leggibile consistenza delle sue interpretazioni discografiche, ma la sua condotta era perfettamente coerente con la sua linea di artista e di uomo veramente «impegnato», socialmente e politicamente…»
L’anno successivo approdammo col festival al Teatro Lirico di Milano, dove del resto avevamo dato già diversi concerti dopo che il Teatro dell’Arte aveva raddoppiato il canone d’affitto, e dove avevamo trovato comprensione e cordiale appoggio da parte di Paolo Grassi, che, finché poté, sostenne con entusiasmo le nostre iniziative.
Nel 1968 facemmo, per cominciare, le cose in grande stile, come non avremmo più potuto fare in seguito: furono infatti quattro giorni filati di jazz, al termine dei quali potemmo redigere (orgogliosamente, confesso) il seguente consuntivo in cifre:
«I musicisti giunti a Milano per prendere parte ai quattro giorni concerti del festival sono stati complessivamente 77, di cui 11 di razza bianca. I cantanti (o prevalentemente cantanti, come Muddy Waters e Otis Spann) erano 11. Gli artisti invitati si sono esibiti in dieci differenti complessi, prescindendo dalle esibizioni dei singoli (Max Roach, Sunny Murray e Joe Simon).
«L’organizzazione del festival ha richiesto circa undici mesi di trattative e di preparative e di preparativi. Gli artisti sono giunti a Milano e ripartiti da Milano con 18 diversi aerei, nel giro di 7 giorni. Per trasportarli dall’aeroporto e in città, e a Prato, e a Reggio Emilia (dove l’orchestra di Gillespie ha dato dei concerti nel corso del festival), è stato necessario noleggiare complessivamente 18 torpedoni, oltre alle varie automobili private usate per i trasporti.»
Il trionfalistico bollettino terminava con una nota sugli incassi: il più cospicuo si era registrato al secondo concerto (il teatro era tutto esaurito), con biglietti venduti per circa sei milioni di lire, che equivalgono a una quindicina di milioni di lire attuali.
Non è il caso di riportare qui il troppo lungo elenco dei partecipanti. Basterà ricordare alcuni complessi: una grande orchestra costituita da Dizzy Gillespie per rievocare gli antichi fasti, la big band di Count Basie, il quintetto di Horace Silver, i Jazz Messengers di Art Blakey, un gruppo con Earl Hines, la blues band di Muddy Waters, il quartetto di Gary Burton, il trio di Elvin Jones, il trio di Red Norvo, il coro delle Stars of Faith.
Fu, per tutti noi coinvolti nell’organizzazione, una sfacchinata indimenticabile, tuttavia riuscii a trovare il tempo per partecipare a una tavola rotonda organizzata per la RAI da Adriano Mazzoletti, che volle approfittare della presenza di alcuni illustri critici stranieri: Leonard Feather, Stanley Dance e Demétre Ioakimidis.
Salvo qualche episodio sgradevole dovuto ai batteristi Elvin Jones e Sunny Murray (se ne parla altrove, in queste pagine), i musicisti, quella volta, non ci procurarono grane; erano tutti ben compresi della necessità di evitarci inutili grattacapi. E ad ogni pie’ sospinto ci ripetevano un tranquillizzante «No problem!» che alle nostre orecchie aveva un dolcissimo suono.
Preso coraggio (dato l’interesse del pubblico, la sovvenzione del comune, pur esigua, si era rivelata sufficiente) ci riprovammo l’anno dopo.
Nel 1969 cominciammo con della musica difficile: nel primo concerto presentammo infatti il quartetto di Cecil Taylor, il quale ultimo si avventurava per la seconda volta in Italia (era venuto già due anni prima, da solo, a Bologna), e poi una grossa orchestra costituita per l’occasione da Giorgio Gaslini, che per essa aveva scritto delle composizioni impegnative, e infine l’ultimo complesso di Miles Davis.
Taylor irritò il pubblico ancora di più di quanto non avesse fatto Shepp a Lecco: c’era gente che gli buttava addosso delle monetine, in segno di disprezzo, e moltissimi urlavano insulti. Però gli intenditori rimasero impressionati.
Recensendo per «Musica Jazz» quell’esibizione, Pino Candini scrisse poi:
«Il secondo capitolo si intitola Cecil Taylor ed è da choc. Perché il piccolo e baffuto pianista catapulta nella sua musica una vitalità esplosiva di cui non si può rimanere incontaminati. A differenza di quel che avviene con Davis, qui il fatto culturale è preminente, e talvolta anche troppo scoperto. La ricerca di Taylor affonda, com’è noto, le radici, oltre che in tutto il mondo del jazz, anche nella musica «dotta» europea di oggi (nei suoi recenti concerti ha affrontato brani Kegel e Stockhausen). Il suo discorso si svolge dunque a un livello di indubbia complessità, infarcito di ardui concetti e di sottolineature emblematiche, con frequenti richiami al concertismo accademico (preso di petto con furia devastatrice), ed è discontinuo, prolisso, talvolta delirante. Ma quanta energia creativa e quale urgenza di verità nel suo esasperato mondo sonoro!
«Taylor, come Ellington e come Monk, non è un mero strumentista, né tanto meno un interprete: egli è un creatore, un «produttore» di musica, e ciò avviene indifferentemente sia tramite il suo pianoforte (che usa con tecnica vigorosamente percussiva) che attraverso i suoi strumentisti. Si tratta dei sassofonisti Jimmy Lyons e Sam Rivers e del batterista Andrew Cyrille: un gruppo che vuol porre l’accento proprio sull’unità (si chiama infatti «Unit») degli intenti e del contributo creativo…»
Il trionfatore di quel concerto fu però Miles Davis, che proprio in quei mesi aveva cominciato a rasentare i confini del rock prendendo gusto all’amplificazione elettrica del suo strumento (e non solo del suo). Sentimmo in quell’occasione alcuni brani del disco «Bitches Brew», che non era stato ancora pubblicato; risentimmo qualche sua vecchia specialità, come Nefertiti e Round About Midnight, e ammirammo la sua mise di ispirazione hippie: casacca bianca, foulard rosso, catene, e pantaloni di finta pelle di serpente con tutte le tonalità dell’azzurro. Apprezzammo anche il suo nuovo complesso, in cui, dei vecchi, era rimasto il solo Wayne Shorter, ed erano entrati alcuni giovani di grande avvenire: Chick Corea, al piano, Dave Holland, al contrabbasso, e Jack DeJohnette, alla batteria.
Per le sere seguenti avevamo tenuto di riserva qualche personaggio di rilievo: Duke Ellington e Lionel Hampton con le rispettive formazioni, Sarah Vaughan, gli inevitabili «Newport All Stars» capeggiati da George Wein (Red Norvo, Ruby Braff, Barney Kessel, Larry Ridley e Don Lamond) ai quali si aggiunse poi il veterano Joe Venuti, che ebbe onori trionfali, divisi in parte col collega parigino Stephane Grappelli, da noi convocato per un «vertice» violinistico. Fra gli ospiti stranieri avevamo inserito un’altra grossa orchestra italiana formata per l’occasione da Gil Cuppini.
Fecero tutti del loro meglio, tranne i due più grossi personaggi: Ellington, la cui orchestra suonò controvoglia, e Lionel Hampton, che ne fece di tutti i colori per guadagnarsi la simpatie dei più ingenui fra il pubblico. (Benché facesse del circo equestre, Hampton aveva molte pretese, anche perché si portava dietro quella sorta di carro armato che era sua moglie Gladys, sempre pronta a difendere con grande decisione le prerogative di grande star del marito…)
Il 1970 fu il primo anno di boom del jazz in Italia. Per tacere dei concerti isolati, solo noi presentammo, tra l’estate e l’autunno, ben tre grossi festival – a Verona, a Nervi e a Milano -, mentre altre manifestazioni più o meno importanti venivano organizzate da altri a Pescara, Lerici, Palermo, Bergamo, Macerata e Bologna.
A giudicare dal numero delle presenze nei diversi concerti, bisogna dire che quello fu l’anno di Jean Luc-Ponty, il giovane e brillante violinista normanno che più tardi avrebbe compromesso la sua reputazione presso i jazzofili amoreggiando col rock e finendo per domiciliarsi in America, patria dei quattrini.
Allora, invece, Jean-Luc era un ragazzo molto serio, pieno di orgoglio professionale: a Verona lo vidi piangere sconsolatamente solo perché pensava di non essere piaciuto al pubblico…
Quell’estate portammo anche, a Verona e a Nervi, Duke Ellington, impegnatissimo a celebrare e ricelebrare il suo settantesimo compleanno (in quelle occasioni ci fece anche ascoltare la sua nuova New Orleans Suite); scritturammo pure Teddy Wilson (che a Verona dovette essere trasportato a braccia fuori da una casa ospitale, per via delle troppo abbondanti libagioni) e Shelly Manne, uomo amabile quanto altri mai, che si comportò come un gentleman e suonò dovunque benissimo, fra gli applausi entusiastici del pubblico.
Dell’edizione 1970 del festival milanese vorrei ricordarre anzitutto la gran battaglia svoltasi tra la grande orchestra di Kenny Clarke e Francis Boland, con Dizzie Gillespie solista ospite, e quella di Buddy Rich, poste a diretto confronto nello stesso concerto. La battaglia fu vinta, con sorpresa di tutti,, proprio da quest’ultima, che non aveva alcun solista di rilievo, oltre al leader, ma che si distingueva per la ferrea disciplina (Rich è una specie di mastino…), che si traduceva poi in una stupefacente precisione d’esecuzione. E sì che i giovanotti di Rich avevano dato a vedere di temere molto il confronto; bastava aver visto con quanta preoccupazione seguivano, tra le quinte, l’esibizione delle grandi stelle riunite da Clarke e Boland!
Ricordo poi Anita O’Day, regina delle cantanti bianche: una donna sulla quale i burrascosi tascorsi (nel suo curriculum c’è anche un po’ di galera e molta droga) avevano lasciato un segno visibile. Una donna strana, anche, che faceva spesso dei discorsi «onirici» piuttosto sconcertanti.
Peccato che Anita, quella volta, non fece il figurone che avrebbe meritato: forse non seppe tenere alla giusta distanza il microfono, oppure, più probabilmente, il livello di amplificazione era più basso di quanto, nel suo caso, fosse necessario. «Ringrazia Dio che io non sono Norman Granz,» mi disse Wein, osservando la calma con cui seguivo l’esibizione della sua cantante «altrimenti adesso non saresti così tranquillo.»
Quell’anno facemmo anche la conoscenza con Tony Scott – appena arrivato in Italia, da dove non si sarebbe più mosso – e rivedemmo Mingus, Hines, Dave Brubeck e Gerry Mulligan, Jean-Luc Ponty, Basso e Valdambrini e Enrico Intra.
La serie dei grandi festival milanesi si chiuse praticamente l’anno dopo, con dei memorabili concertoni al Conservatorio. Lì convocammo per l’ennesima volta Miles Davis, ormai definitivamente «elettrico» (aveva con sé delle tonnellate di amplificatori e altoparlanti, che nascondevano quasi il brillante pianista, Keith Jarrett: «Non mi piace il piano elettrico» mi disse allora Keith. «Il prossimo disco che farò sarà col piano acustico»), e poi Gato Barbieri, astro montante (l’avevo incontrato a luglio a Montreux e lo avevo scritturato senza pensarci un minuto: «Ora abbiamo cambiato tutto», mi ripeteva visibilmente compiaciuta Michelle, la moglie di Gato, che nell’amministrazione della carriera del marito ha sempre avuto un ruolo di primo piano), e poi un gruppo di gloriosi esponenti del bebop riuniti sotto l’insegna di «Giants of jazz» (Dizzy Gillespie, Sonny Stitt, Kai Windingg, Thelonious Monk, Al McKibbon e Art Blakey), il quartetto di Phil Woods e altri ancora. Avrebbe dovuto arrivare anche John Surman, ma non si fece vedere; aveva – come usa dire caritatevolmente nel mondo del jazz – dei «problemi personali».
Credo che al Conservatorio non ci perdoneranno mai i pienoni di quelle sere: ci fu subito chiaro, ad ogni modo, che quell’austero luogo non era adatto per certe manifestazioni. Non ci rendemmo conto invece che quello sarebbe stato praticamente l’ultimo dei nostri festival a Milano: l’anno successivo, per l’indisponibilità del Teatro Lirico e per quella (reale o solo dichiarata) del Conservatorio, dovemmo rinunciare a ripetere la nostra manifestazione quando avevamo già impegnato i solisti e le orchestre… Che furono subito dirottati a Bologna, che ereditò quindi, anche per gli anni a venire, il carrozzone di George Wein.
Dal momento che, pochi mesi dopo, facemmo a Milano un paio di tonfi clamorosi con dei concerti di Oscar Peterson e di Ray Charles, non ci rimase che Verona, ultimo nostro approdo sicuro.
I tempi – avevamo capito – erano irreversibilmente cambiati, soprattutto a Milano. Il pubblico non accettava più i prezzi che gli alti costi imponevano: il pericolo degli autoriduttori incombeva sempre ed era gravissimo. Senza danaro pubblico dunque non si poteva fare più nulla, era evidente, e per certe cose noi non eravamo tagliati. Del resto, gli organizzatori dei concerti di jazz – che un tempo non esistevano affatto – si erano moltiplicati in epoca recente, in Italia, e il nostro lavoro non era più necessario. Senza dire, per finire, che avevamo ormai incontrato tutti i musicisti di jazz che contassero, e sorprese ed emozioni jazzistiche non erano praticamente più possibili.
A Verona continuammo ad andare avanti, giusto per rimanere sulla breccia, per non invecchiare. E ci divertimmo ancora. Ci divertimmo soprattutto una sera di luglio del 1972, quando organizzammo, all’Arena, una sorte di «notte del jazz», che cominciò alle nove precise e si concluse poco prima delle quattro del mattino. Sugli spalti c’erano almeno dodicimila persone e sul palco c’erano più musicisti di quanto fosse sensato radunarne.
Fu quello l’anno in cui assistetti, per telefono, alla fine della Clarke-Boland Big Band, che avevo appena scritturato per qualche concerto, quello di Verona compreso, e che si sciolse allora definitivamente in seguito alle divergenze sorte a proposito dei compensi da richiedere. Quell’orchestra fu poi sostituita, a Verona, dalla grossa formazione di Maynard Ferguson, i cui uomini arrivarono in aereo da, Londra a Milano, quello stesso pomeriggio, suonarono all’Arena per un’ora abbondante, poi presero la ciucca e la smaltirono durante la notte in autobus, per infine ripartire in aereo all’indomani, di buon’ora.
Fu ancora quello l’anno (e il luogo) in cui Ella Fitzgerald fu colpita, proprio durante la sua esibizione, a Verona, da una grave emorragia all’interno degli occhi, e fece finta di niente, continuando a cantare, semicieca, per un’ora e mezzo di fila, per poi ritirarsi dalle scene per mesi.
Sul palcoscenico dell’Arena passarono ancora, in quella interminabile serata, i quartetti di Max Roach e Phil Woods, il complesso di Charles Mingus e qualche solista «sciolto» messo insieme per l’occasione: Roy Eldridge, John Lewis, Daniel Humair eccetera. Fu una tale scorpacciata di jazz che io non resistetti fino alla fine; verso le tre di notte piantai lì tutti e me ne andai a dormire, chiedendomi come facesse il pubblico a ingurgitare tanta musica senza fare indigestione.
Peccato che il piacere di quel successone fu guastato una settimana dopo da un grosso fiasco da noi fatto nel cortile del Castello Sforzesco di Milano, dove avevamo fortunosamente dirottato i musicisti e i complessi che avevamo scritturato per un festival che avrebbe dovuto aver luogo, per la terza volta consecutiva, a Nervi o a Genova, e che invece saltò, all’ultim’ora.
A fine luglio Milano è semivuota e del resto la «capitale del jazz» – come la chiamava orgogliosamente Paolo Grassi – da qualche tempo non stava facendo onore alla sua reputazione (avevano fatto fiasco anche dei concerti da noi presentati al Lirico con Ornette Coleman e con Bill Evans). Così, se a Verona ho visto la folla più numerosa che ci fosse mai capitata davanti a un concerto di jazz, a Milano battemmo l’opposto record: riuscimmo infatti a racimolare poco meno di 2700 persone in due sere, nonostante i prezzi popolari. E sì che c’erano i gruppi di Charles Mingus, di Gato Barbieri, di Max Roach, di Yusef Lateef, la big band di Gil Cuppini e un gruppo di solisti insigni tra cui Roy Eldrige e John Lewis.
Quella sera perdemmo la fiducia di veder tornare i grandi giorni per il jazz, a Milano, e non abbiamo più avuto motivo di cambiare idea.
Dopo, a parte Verona, facemmo solo poche cose. Praticamente non mi restò che andare ad ascoltare i concerti degli altri, che altrove si moltiplicarono. Altri festival furono varati, soprattutto per l’attivismo di due amici bolognesi, Alberto Alberti e Antonio Foresti, e il jazz divenne la musica favorita dei partiti e dei gruppi politici di sinistra, che fecero di Archie Shepp il loro eroe. Tuttavia mi riuscì raramente di incontrare altre facce nuove, tra i musicisti. Forse i più lieti incontri li feci con gli old timers, gli eroi della mia prima giovinezza: come gli ex-crosbiani della World’s Greatest Jazz Band, o come Jimmy McPartland, uno dei molti Dixielanders convocati in Italia da Lino Patruno. Per non parlare di Joe Venuti, che ritornò per stare in Italia a lungo.