Archie Shepp

Il mio primo incontro con Archie Shepp, quando arrivò per la prima volta in Italia per partecipare al Festival del jazz di Lecco, non fu gradevole. Per cominciare ci creò dei problemi perché si rifiutò di alloggiare, insieme ai colleghi,m nel lussuoso Hotel Duomo di Milano, e non ebbe pace finché, dopo aver messo il naso nei migliori alberghi della città, non scovò quello dei nababbi, il Principe e Savoia, dove si insediò tutto solo, lontanissimo dagli altri. più tardi, nella stessa giornata si rifiutò di cenare con i compagni nel miglior ristorante di Lecco (se ne stette, ingrugnatissimo, a digiunare nell’autobus); dimenticò poi in albergo il suo sassofono (Gli prestò il suo, molto malvolentieri, Wayne Shorter) e infine scordò nell’autobus il dashiki (la variopinta tunica africana che per lui, in quegli anni, era come una bandiera) che io dovetti andare a cercare girando alla cieca per Lecco, e perdendo così gran parte el concerto di Miles Davis, a cui tenevo particolarmente.
Dopo di allora Archie Shepp è tornato più volte in Italia, ma, a parte la superbia e la totale indifferenza per i problemi di chi lo scrittura, che sono rimaste immutate, non assomiglia più al noto musicista conosciuto a Lecco. Ha smesso il dashiki, optando per il doppiopetto blu, e ha smesso anche di suonare free jazz di cui era stato uno dei grandi campioni: quella musica gridante e discordante che parve voler commentare i drammatici avvenimenti che scandirono l’avanzata della Black revolution nei tumultuosi anni Sessanta, quando Malcolm X, Martin Luther King, Stokely Carmichael, e Seale e Newton (i due fondatori del partito delle Pantere Nere) conducevano la lotta contro il potere bianco. Da qualche anno Shepp suona una musica più tradizionale.
Ma le tradizioni che rispetta, le uniche di cui tiene conto e che gli stanno a cuore, sono quelle afro-americane. Il resto non lo interessa, non lo tocca.
«Voi avete Stravinsky, e per voi è facile parlarne, scriverne, perché di lui si sa tutto, e tutti lo rispettano» mi ha detto un shepp nel corse di un’intervista da me raccolta per «Epoca». «Noi abbiamo Duke Ellington, Charlie Parker, Lester Young, … Ma quando io, all’Università di Amherst, nel Massachussets, dove insegno da alcuni anni teoria musicale e storia della musica afro-americana (no, non mi piace la parola «jazz»: l’hanno inventata i bianchi, implica segregazione), devo preparare una lezione per parlare, per esempio, di Lester Young, faccio fatica a trovare qualche documento o qualche studio che lo riguardi. Tutti i libri parlano di Stravinsky, di Beethoven, di Mozart, ma ignorano la nostra musica…»
A proposito degli inizi della sua carriera, non ebbe molto da raccontarmi. Figlio di un oscuro suonatore di banjo, aveva trascorso l’infanzia in Florida, e la prima giovinezza a Filadelfia. «Ho imparato a suonare lì, nella black community, un po’ empiricamente, in principio. All’Università d, nel Vermont, mi sono occupato di altre cose, e ho finito per laurearmi con una tesi in arte drammatica. Ho scritto anche due commedie e parecchie poesie. Adesso, di tanto in tanto, scrivo qualche saggio di argomento musicale.» E’ un’intellettuale, infatti. la sua intelligenza è acuta e la sua cultura assai superiore a quella di in normale musicista di jazz. Non so in che misura, ma certo ha letto Marx. peccato che si dia tante arie.
Ai corsi che svolge all’Università tiene molto. «Insegno» mi ha detto «in uno di quei centri istituiti per lo studio della storia, della cultura, dell’arte degli afro-americani: quei Black Studies Centers che sono una delle conquiste della Black Revolution: Ma naturalmente preferirei suonare. Anche perché mi delude il fatto che i miei corsi, come quelli di altri colleghi (Max Roach, per esempio), siano frequentati soprattutto da studenti bianchi. Questo fatto è imputabile al sistema che fa in modo che i negri vengano esclusi. guardate cosa succede nel campo della nostra musica. Quando era vivo Charlie Parker, chi aveva in mano le leve del comando fece di tutto per cercare di inventare un Parker bianco. Ora si cerca di inventare un John Coltrane bianco.»
Per Shepp la grave crisi creativa che da diversi anni affligge la musica afro-americana non ha altra spiegazione. E’ il sistema che non lascia emergere i migliori artisti neri, che li emargina, li corrompe e li sfrutta. Il rock-jazz, che in america ha dilagato, si spiega così. E’ un prodotto della macchina industriale, che tende a distruggere e sempre contamina i prodotti dell’inventiva dei neri. «La cosiddetta musica jazz è stata utilizzata come capitale di base per il rock, che è una musica bianca… si tratta di una delle tante forme di sfruttamento della comunità nera.»
Anche lui, ha messo un po’ d’acqua nel suo vino; però non si è venduto. Ha solo voluto riavvicinarsi alle tradizioni della genuina musica afro-americana.
Questa musica resisterà agli attacchi che le vengono mossi da più parti, su questo Shepp non ha mostrato dubbi, anche se non si è nascosto le difficoltà. «Oggi non ci sono uomini guida» mi ha detto. «I grandi leaders degli anni Sessanta sono morti: Malcolm X, Martin Luther King, John Coltrane. E’ difficile che qualcuno possa prendere il posto di Coltrane: come si fa ad andare più lontano di lui? Questo è un momento di riflessione, di approfondimento, di recupero delle tradizioni.»