Uno della «Austin»

Avevo visto per la prima volta Jimmy McPartland a parigi, nel 1949. Si trovava in Europa perché aveva accompagnato sua moglie Marian a far visita a la famiglia di lei, nella patria Inghilterra, ed era stato lieto di fare un’apparizione alla Salle Pleyel in quell’affollatissimo festival del jazz che portò dinanzi all’illustre ribalta parigina personaggi ormai mitici di qua dall’Atlantico come Charlie Parker e Sidney Bechet. Jimmy aveva allora 42 anni, ma il suo nome mi era familiare da un pezzo; alcuni suoi dischi sono entrati nella mia discoteca intorno al 1935. Per questo motivo sarei stato lietissimo di cambiare quattro chiacchiere con lui in quei giorni a Parigi, ma in quella calca, coi flics che prendevano furiosamente a pedate i fans che cercavano di intrufolarsi fra le quinte, non era davvero facile parlare coi musicisti.
Sono dovuti trascorrere più di ventisei anni prima che potessi vederlo ancora. ventisei anni che, ahimè, sono passati in fretta, ma che hanno lasciato il segno, su di me e su di lui. Era un biondo giovanottone di taglia atletica quando lo avevo sentito suonare Singing the Blues in quei giorni a Parigi; ora mi trovavo di fronte un anziano signore di quasi 69 anni. Ma il suo Singing the Blues era rimasto immutato, ed era rimasta immutata la mia voglia di chiacchierare con lui. Dopotutto Jimmy McPartland era stato uno degli eroi della mia adolescenza, ed era stato un eroe «privato», per così dire, visto che, allora, prima del 1935, non conoscevo alcun altro appassionato del jazz né avevo mai ascoltato jazz al di fuori delle pareti di casa mia.
Insomma, di fronte a tal personaggio (uno degli «inventori» del jazz bianco a Chicago, pensate un po’), valeva la pena di metter mano al registratore e porgergli il microfono per farlo parlare un po’.
La prima domanda era quasi obbligatoria:
Non vorresti raccontarmi qualcosa dei vecchi tempi di Chicago, quando insieme ad altri ragazzi della Austin High School cominciasi a cimentarti col jazz, che alcuni musicisti di New Orleans avevano da poco fatto conoscere al pubblico?
«Eravamo quasi tutti compagni di scuola, ed eravamo molto amici. Bud Freeman abitava a due isolati di distanza da me e anche Frank Teschemacher abitava vicino a noi; quanto a Jim Lannigan, era un amico di mia sorella. Poi c’era Dave Tough, batterista, c’erano Dave North, pianista, e mio fratello Dick. Avevamo suppergiù quindici anni. Io ero il più giovane; Teschemacher, freeman e mio fratello avevano due anni più di me. Molti di noi suonavano il violino: io, Lannigan, mio fratello e Teschemacher.»
Allora a quel tempo non suonavate jazz. Con tutti quei violini…
«All’inizio non facevamo del jazz. Tutto cominciò quando potemmo ascoltare dei dischi dei New Orleans Rhythm Kings che avevamo comprato. Quella musica ci procurò una grande eccitazione, ci entusiasmò.»
Il jazz allora era una novità, non è vero?
«Sì, era una novità. Noi non avevamo mai sentito del jazz prima di ascoltare quei dischi. Del resto, i musicisti che li avevano incisi erano di New Orleans ed erano arrivati a Chicago da poco, intorno al 1921, quando noi cominciavamo a suonare. Comunque, quando noi cominciammo a suonare in giro, nel 1922-23, a Chicago c’erano anche King Oliver con Louis Armstrong, e altri, naturalmente. Poi c’erano i Wolverines, con Bix Beiderbecke, che davano concerti dappertutto, soprattutto nei colleges… peccato che noi eravamo troppo giovani, allora, per entrare nei locali notturni dove suonavano le orchestre. Dovevamo accontentarci dei dischi.»
Raccontami dei tuoi inizi. Come hai imparato a suonare?
«Ho studiato sotto la guida di mio padre, che era un insegnate di musica. (Era anche un pugilatore e giocatore di baseball. Un musicista e un atleta. Come sarei stato anch’io.) Passavo però molto tempo ad ascoltare i dischi. Io e mio fratello, che suonava la chitarra ed il banjo, ci mettevamo accanto al fonografo, ascoltavamo con la massima attenzione e cercavamo di rifare i diversi passaggi. Non dimenticare che a quel tempo non c’era musica stampata, che potessimo leggere: per lo meno non del tipo che piaceva a noi. Io avevo la fortuna di avere un buon orecchio, perché suonavo il violino da un po’ di tempo.»
Il vostro gruppo è passato alla storia del jazz come la «Austin High School Gang». Questo nome vi è stato dato dopo, quando ormai vi eravate dispersi, oppure qualcuno vi chiamava già così negli anni di cui stiamo parlando?
«Ci chiamavamo così già allora. E la ragione è che alcuni di noi facevano spesso a pugni. Io e mio fratello soprattutto. Ogni tanto qualcuno veniva a dirci: «La vostra musica fa schifo!» (Stinks = puzza), e allora giù botte. Noi credevamo nella nostra musica e non eravamo disposti a farci insultare. Io poi ero il leader e sentivo il dovere di difendere il nostro lavoro. La gente cominciò ad avere paura di noi, perché le zuffe erano frequenti. Non erano pochi quelli che venivano a dirci che la nostra musica faceva schifo…»
Dunque, eri tu li direttore d’orchestra…
«Certo. Ero il leader a tutti gli effetti. Ero il direttore musicale del gruppo, ne ero il manager perché ero io che trovavo le scritture, e suonavo stando davanti all’orchestra. Suonavamo soprattutto nei sabati, per certe feste scolastiche, per i balli di varie associazioni, eccetera.»
Che musica facevate in quelle occasioni? jazz?
«Certo che era jazz. Era la musica che avevamo copiato dai dischi dei NORK, di King Oliver e Armstrong, dei Wolverines… pezzi come Copenhagen, Suzy, I Need Some Pettin’, Fidgety Feet. Però stai bene attento: copiavamo dai dischi tutto, tranne gli assoli. Gli assoli erano sempre originali!»
A proposito di originalità. Spiegami come è successo che Bud Freeman sia riuscito a farsi uno stile tanto personale, diverso da ogni altro.
«Bud Freeman non conosceva una nota di musica quando venne a suonare con noi. io cercavo di insegnargli i primi rudimenti, e così mio padre. Ma era una gran fatica perché lui era proprio digiuno. però aveva un buon senso del ritmo perché era un bravo ballerino. fatto sta che dopo sei mesi non sapeva ancora suonare decentemente. Sbagliava le note facendomi arrabbiare. Così litigavamo spesso. Gli dicevo che avrebbe dovuto studiare un po’ di armonia… Il suo problema era quello: cominciava un assolo e poi non sapeva in che direzione andare. Suonava così (fa un’improvvisazione scat, ripetendo sempre la stessa nota). Capisci, sempre la stessa nota! Quel modo di suonare faceva imbestialire Teschemacher. Però io avevo fiducia in Bud, perché aveva dello swing. e per me il jazz significa proprio questo: swing!»
A proposito di swing, mi viene in mente che quando voi suonavate aq Chicago, tra il 1923 e il 1924, in città muoveva i primi passi come musicista anche Benny Goodman, che allora era sui quindici anni. Non suonava mai con voi?
«Sì, ogni tanto suonava con noi. C’era lui e c’era anche un trombonista di origine italiana, Joe Quartella. Suonavamo a Cicero, il peggior quartier di Chicago, che sarebbe diventato il dominio di Al Capone.»
Non avete ma avuto a che fare coi gangsters?
Come no? Ricordo che una sera, proprio in ul locale di Cicero, arrivarono gli uomini di Capone e cominciarono a fare il diavolo a quattro, a spaccare bottiglie sulla testa della gente. Ma a noi non facevano nulla. Ci dicevano: «Continuate a suonare e non vi succederà niente…». E noi continuavamo a suonare…»
Parlami un po’ dei dischi fatti nel 1927 sotto il nome di Eddie Condon e di red McKenzie: «Condon’s and Mckenzie’s Chicagoans». furono fra le prime incisioni di jazz che io comprai, una quarantina d’anni fa. C’eri tu, Bud Freeman, Teschemacher, gene Krupa, Joe Sullivan…
«Quella era praticamente la mia orchestra, anche se qualche uomo è stato cambiato. Condon mise il suo nome sull’etichetta a fianco di McKenzie perché era stato lui a procurare la seduta… Sai Eddie Condon non era un buon musicista: era un tipo divertente. Molto spiritoso. Ci era molto simpatico, ma quanto a musica… Avevamo preso Gene Krupa perché era miglior batterista di Dave Tough; mio fratello aveva degli impegni… sai come succede…»
Quando quei dischi comparvero in Europa, fecero sensazione fra i pochissimi che si interessavano al jazz allora. Si diceva che si trattava di un diverso tipo di jazz, diverso da quello arrivato da New Orleans. Si cominciò a parlare di «stile Chicago». pensi che fosse giusto?
«Certo. Comunque «stile Chicago» altro non significava in sostanza che swing.»
Ma vi rendevate conto che stavate facendo una musica diversa da quella degli altri?
«No. tutto quello che facevamo di nuovo era suonare in 4/4 anziché in 2/4 come facevano gli altri. Avevamo un contrabbasso che scandiva quattro battiti per misura. Insomma, quello che contava era il tempo. il 4/4 è più eccitante del 2/4, non ti pare? Lo stile Chicago è tutto qui.» (Canticchia battendo ritmicamente la mano sul tavolo, in 4/4.)
Che cosa pensavate allora dei musicisti neri arrivati da New Orleans? Non pensavate che fossero i migliori?
«No. Naturalmente ci piacevano King Oliver e Louis Armstrong… Vedi, dal punto di vista ritmico i musicisti neri erano i più grandi, ma dal punto di vista armonico e melodico no. del resto, chi credi che abbia dato al nero la melodia e l’armonia? L’uomo bianco! La melodia, l’armonia, il fraseggio, non sono venuti dall’Africa. il jazz americano non è altro che il miscuglio del ritmo africano con la melodia e l’armonia europee. Di conseguenza il nero non può vantarsi di avere inventato il jazz.»
Sbaglio, o voi preferivate certi musicisti bianchi, come Bix Beiderbecke?
«Sì, è così. Ci piaceva di più perché aveva un buon senso melodico e armonico e una bellissima sonorità. Aveva un suono molto piacevole. Bada però: mi piacevano molto anche Louis Armstrong e King Oliver. La loro musica è meravigliosa anche oggi. Comunque i miei gusti personali mi facevano propendere per Bix. Fu lui il mio modello, ed esercitò su di me un’influenza molto maggiore di Armstrong. Io mi ispiravo alla sonorità, alle belle armonie, al fraseggio di Bix, però non lo copiavo. e questo me lo disse anche lui. «Ragazzo (mi chiamava sempre così: kid), mi piace il modo in cui suoni. Il tuo suono somiglia al mio ma tu non mi copi».
A proposito di Bix. So che tu hai preso il suo posto nell’orchestra dei Wolverines, nel 1924. Raccontami com’è successo.
«Bix era stato chiamato a Detroit da Jean Goldkette, che lo voleva nella sua orchestra. I compagni di Bix però gli dissero che non lo avrebbero lasciato partire finché non avessero trovato chi lo potesse sostituire nei Wolverines. provarono Sharkey Bonano, il trombettista di Neo Orleans, ma non andò bene. Anche Red Nichols non poteva andar bene perché non sapeva improvvisare. Allora pensarono di chiamare me. Fu Vic moore a suggerire il mio nome. Mi aveva sentito a Chicago, dove era capitato in vacanza, sei mesi prima. Si era congratulato con me. «Ehi, ma tu suoni come Bix!» mi aveva detto. Poi mi aveva chiesto il nome, l’indirizzo e il numero di telefono. Mi raccontò dell’orchestra dei Wolverines, di come Bix fosse meraviglioso, e così via. Sei mesi più tardi ricevetti un telegramma da New York, firmato da Dick Woynow, che era il direttore dei Wolverines. Diceva pressappoco: «Puoi sostituire Bix nei Wolverines al Cinderella Ballroom per 87 dollari e 25 cents alla settimana? rispondi subito al Somerset Hotel ecc.». Guarda che erano un sacco di soldi, allora, e poi avevo appena diciassette anni. i miei amici dell’orchestra di Chicago mi incoraggiarono ad accettare l’offerta e io risposi subito chiedendo che mi anticipassero i soldi per il viaggio, che non avevo. Il giorno dopo mi arrivarono 35 dollari per il biglietto del treno. Alla stazione fui accompagnato da un sacco di gente: c’era tutta la mia famiglia e c’erano quelli della Austin High School Gang. C’era anche Benny Goodman.»
Già, allora era un avvenimento…
«Altro che avvenimento! era il più grande onore che un musicista potesse avere. Non dimenticare che per noi Bix era il più grande. Bix, con Louis Armstrong, King Oliver, Paul Mares. Però Bix era qualcosa di speciale, per via della melodia, del fraseggio, delle armonie, dello swing. Ti ripeto, comunque che ci piaceva moltissimo anche Armstrong.»
Torniamo al tuo ingresso nei Wolverines. non c’è stato un periodo di rodaggio?
«Sì, è durato cinque giorni, durante i quali io sono stato accanto a Bix. Dormivamo nella stessa stanza, e suonavamo uno a fianco dell’altro. Bix mi insegnava gli arrangiamenti dei Wolverines.»
Puoi dirmi qualcosa di Bix come uomo? Se dovessi usare una sola parola poer definirlo, quale sceglieresti?
«Direi che è molto istruito (very well educated). Aveva frequentato il college. I suoi genitori lo avevano mandato all’Accademia di Lake Forest, che è a nord di Chicago, sulla riva del lago Michigan. Comunque ci restò poco, perché l’unica cosa che gli importava era suonare la cornetta. Aveva due soli interessi, Bix: la musica e l’alcool. Beveva moltissimo: aveva cominciato a bere a sei anni…»
E’ vero che era un tipo schivo, timido?
«Sì, era un tipo schivo. Guarda però che le ragazze gli piacevano molto. piacevano a tutti noi, come piaceva l’alcool. Eravamo molto giovani, ma non eravamo degli stinchi di santi. Ora invece non berrei un bicchiere di whisky o di birra nemmeno se mi pagassero…»
«Parlami di Frank Teschemacher. ricordo che quando cominciai a interessarmi di jazz, prima della guerra, molti pensavano che Teschemacher fosse uno dei più grandi clarinettisti di jazz
«Teschemacher aveva uno stile molto originale. (A proposito si pronuncia proprio Teschemacher, perché era di origine tedesca, e non Teschemacher, all’inglese.) però non era il solo ad essere originale nella nostra orchestra. Anche Bud Freeman non copiava nessuno, e neppure Dave Tough.»
Ho sentito dire, o forse ho letto, che nell’incidente automobilistico in cui morì Teschemacher fu in parte responsabile «Wild Bill» Davison, che era alla guida.
«Non ti posso dire niente. Io non c’ero…»
A proposito di morti non chiare: quale fu la vera causa della morte di Leon Roppolo, il clarinettista dei New Orleans Rhythm Kings? So che perse il senno e che passò molti anni in manicomio.
«Ti posso dire quanto mi ha detto George Brunies, che come sai suonava a fianco dei NORK. George mi ha detto che Roppolo contrasse la lue e quindi fu colpito da paralisi progressiva.
Gli stupefacenti non c’entravano, dunque… Ha fatto la fine di Buddy Bolden.
«No, gli stupefacenti non c’entravano. lui non usava droghe pesanti. Fumava solo marijuana. E con la marijuana non si muore.»
«Dimmi un’altra cosa. Ai tempi in cui suonavi coi Wolverines la gente ballava al suono dell’orchestra: ma c’era anche qualcuno che ascoltava con attenzione la vostra musica, come accade oggi?
«Sì, qualcuno c’era. Ma erano soprattutto musicisti. Il grosso pubblico non si rendeva ben conto di ciò che facevamo.»
Cambiamo argomento. Puoi dirmi cosa ne pensi delle forme più moderne di jazz? Ascolti spesso i musicisti delle ultime generazioni?
«No. Non li ascolto molto. Sono bravi tecnicamente e musicalmente, ma ciò che fanno non mi commuove come mi commuove la musica a cui mi dedico io, e cioè quello che io chiamo «jazz autentico». Ho sentito che Archie Shepp è molto popolare qui in Italia. Be’, la musica che fa non mi piace per niente. E’ musica brutta, piena di rabbia, sgradevole.»
Ma quella è musica di protesta…
«Già, ma io non sono responsabile della situazione dei neri in America. Né ho il minimo pregiudizio razziale. Per me gli uomini sono tutti eguali, bianchi, neri, gialli…»
Cambiamo ancora argomento. Nella tua ultima tournée europea hai avuto modo di incontrare numerosi gruppi tradizionali locali. Tu, che hai contribuito ad inventare la musica che suonano, hai qualche critica da muovere loro, qualche consiglio da dare? Trovi che nel loro jazz manchi qualcosa del feeling che hanno i musicisti americani?
«No. Comunque bisogna distinguere caso per caso. L’essenziale è suonare con grazia (gently), con facilità (easy), con leggerezza e con swing. Non si deve «forzare», suonare con durezza. Bisogna imparare a controllare le proprie emozioni. I musicisti devono ascoltarsi tra loro, non suonare per sé stessi; la sezione ritmica deve suonare «insieme». A ogni modo ho notato che le qualità tecnico-musicali sono eccellenti. Eccellenti davvero.»
Parlami ora di tua moglie, Marian. Sai che ha suonato anche in Italia in alcuni festival del jazz nel luglio 1974 e che ha avuto un notevole successo?
«Io penso che sia una grande musicista e una donna eccezionale. Siamo divorziati da tre anni, però siamo rimasti ottimi amici e ci rispettiamo a vicenda come musicisti. Per questo suoniamo spesso insieme. Ora abbiamo in vista delle trasmissioni televisive, a cui parteciperemo. Si tratterà di un omaggio a Bix Beiderbecke. (A proposito: sai che non mi hanno invitato al festival che viene organizzato ogni anno a Davenport, in onore di Bix?) Marian aveva cominciato in Inghilterra, come pianista classica; poi ascoltò dei dischi di pianisti americani, come Art Tatum, Fats Waller, Teddy Wilson, e ne fu conquistata. dopo di allora ha fatto molta strada: ha progredito sempre. La verità è che è molto preparata e sa fare di tutto. E’ anche un’ottima compositrice.»
Mi pare di aver letto che l’hai conosciuta in Europa, durante la guerra. E’ così?
«Sì, è così. Io mi ero arruolato volontario nell’esercito degli Stati Uniti e ho anche partecipato allo sbarco in Normandia. Ho incontrato Marian in Belgio dove dava degli spettacoli per le truppe alleate in uno degli Uso Camp Shows. Lei era una civile; io ero entrato da poco nei Camp Shows come militare. Ci siamo sposati in Germania, e abbiamo girato insieme con uno degli Uso Camp Shows per circa sei mesi: in Germania, Belgio, in Francia, in Inghilterra. Questo accadeva però dopo che mi fui congedato, a Parigi. Io ero il presentatore e il direttore d’orchestra nello spettacolo di Marian. Quando Marian si è fratturata un polso e ha dovuto interrompere la tournée, siamo partiti insieme alla volta degli Stati Uniti, nel 1946.»
Un’ultima domanda. Come spieghi che ci siano così poche autentiche personalità, oggi, nel mondo del jazz? Non ci sono mai stati ottimi musicisti come ora, ma tutti suonano in modo stereotipato. Non ti pare anche a te?
«Ai miei tempi non c’era quasi nulla, i modelli erano pochissimi. E bisognava essere originali per forza. I musicisti di oggi invece possono scegliere fra una grande quantità di modelli ed è sempre più difficile inventare qualcosa di nuovo.»
guardo l’orologio. Jimmy parla ininterrottamente da un’ora e mezza. A lasciarlo fare continuerebbe. Ma io ho il fiatone. E penso alla faticaccia che dovrò fare per trascrivere dal magnetofono tutto quello che mi ha raccontato. Continueremo ancora a parlare per ore, ma senza registratore davanti: off record, come si dice.