
Satchmo
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Il 21 ottobre 1949, Louis Armstrong trovò una piccola folla ad attenderlo all’aeroporto della Malpensa. Per lui era uno spettacolo consueto. Era un rito che si ripeteva puntualmente dovunque andasse, al di fuori degli Stati Uniti. Spesso a dargli un sonoro benvenuto c’era una casareccia «banda New Orleans»: ce ne sarebbe stata una, di lì a pochi giorni, anche a Roma (e fu quello il debutto ufficiale della Roma New Orleans Jazz Band», il cui morale salì alle stelle proprio per gli incoraggiamenti che i suoi giovanissimi componenti ricevettero dal grande Satchmo).
I «Welcome to Italy» si sprecarono, per lo meno quanto gli smaglianti sorrisi, le strette di mano e le risate dell’ospite, il quale dava proprio l’impressione di trovarsi al colmo della beatitudine, felice di ritrovarsi in mezzo ad amici perduti di vista da anni.
Satchmo era un uomo dotato di un’incredibile vitalità: si aveva l’impressione di trovarsi dinanzi a una dinamo, o a una molla compressa pronta a scattare. Era intelligentissimo. era anche piuttosto prepotente, egocentrico, testardo; però per il suo pubblico era un cordialone, un sempliciotto. Recitava alla perfezione la parte di Louis Armstrong detto Satchmo, un tempo soprannominato Dippermouth, il povero ragazzo negro nato in una squallida baracca di New Orleans che poi avrebbe fatto strada. (Per quale ragione? chiedetelo al pubblico – sembrava dicesse – io non lo so. E’ il pubblico, nella sua immensa generosità, che mi ha reso importante…)
Bisognava vedere l’espressione compunta che gli si disegnava sul viso ogni volta che qualcuno ne tesseva pubblicamente l’elogio. teneva gli occhi rivolti verso il basso, le labbra piegate in una smorfia dolorosa: Domine non sum dignus…
E bisognava gustare il perfetto tempismi di certe sue battute, di quelle sue risate… La prima che sentii da lui – alludo a quelle fragorosissime, che si udivano a grande distanza – non fu solo una risata: fu l’entrata di un grande attore, una performance da applauso a scena aperta. Eravamo ad attenderlo nelle sale del British Institute, a Milano, dove veniva dato un piccolo ricevimento in onore suo e dei suoi uomini: Jack Teagarden, Earl Hines, Barney Bigard, Cozy Cole, fra gli altri. Sapemmo che era arrivato quando udimmo quella sua risata rabelesiana risuonare nell’anticamera. Non so come, Louis era riuscito a fare in modo che ci fosse una plausibile ragione per ridere di gusto proprio nel momento in cui attraversava la porta d’ingresso. Voleva far sapere a tutti che satchmo era arrivato e che era quel cordialone che tutti conoscevano.
Come riuscisse a farsi porre le domande a cui voleva rispondere non l’ho mai compreso. Però è quanto accadeva spesso. Accadde anche con me e Testoni quando, in quei giorni di ottobre, andammo a intervistarlo in uno dei camerini del Teatro Odeon, dopo un concerto.
Lo sorprendemmo nella sua abituale tenuta di riposo, dopo il lavoro: in mutande e canottiera, con un grosso fazzoletto bianco annodato attorno alla testa sudata. Fu affabilissimo. Ci trattò come fossimo gli inviati di chissà quale grande giornale. Ascoltava le nostre domande con grande attenzione, guardandoci fissamente: qualche volta ci dava delle risposte vaghe, anzi evasive; ma più spesso rispondeva con precisione, con perentoria sicurezza.
Quando gli fu chiesto se fosse anche lui dell’opinione che solo i musicisti neri sentissero profondamente il jazz e potessero suonarlo nel modo «giusto», si indignò addirittura. (O meglio: fece finta di indignarsi – per lo meno così mi parve:) Si sedeva e si alzava di scatto, accalorandosi, e per farsi capire meglio, ogni tanto dava di piglio alla tromba. La appoggiò alle labbra per soffiarci dentro almeno un paio di volte: quando volle illustrarci il fraseggio jazzistico, che poteva essere tale anche se si svolgeva ad libitum, senza appoggiarsi a un tempo regolare, e poi quando volle spiegarci che cosa intendeva lui per un buon assolo, che per prima cosa doveva «raccontare una storia», e cioè avere un inizio, una fine, raggiungere un climax, e svolgersi nel modo più logico, conseguente ed espressivo. «Il jazz migliore è quello suonato nel modo in cui uno lo sente nel profondo del suo animo» ci disse, e poi aggiunse una brevissima lista di requisiti del buon jazzman: «division and phrasing», «a good time, imagination and a sense of rhythm».
Allora si era in pieno periodo bop. Di fronte a Dizzy Gillespie e gli altri boppers Armstrong poteva essere considerato un musicista superato, un uomo appartenente a un’era ormai conclusa. Sapevamo benissimo, Testoni e io, che quei giovani turchi, i boppers, erano per lui come il fumo negli occhi (a loro aveva persino dedicato uno sfottò in musica, che a qualcuno era sembrato di cattivo gusto); però volemmo ugualmente stuzzicarlo sull’argomento. «Il bebop» ci disse con aria convinta «è frutto di errori. Il musicista comincia una frase e non può svolgerla perché gli riesce difficile tecnicamente e non sa come svilupparla, e allora ripiega su una conclusione illogica, inaspettata.» Ancora: «I giovani musicisti mirano all’effetto, a raggiungere la nota più alta. Bastano pochi anni di bebop per rovinare le labbra. Il jazz è un’altra cosa, non è solo questo».
Il guaio era che le labbra se le era rovinate lui, deturpandole in modo orrendo (sul tavolo del suo camerino, assieme a diverse boccette di medicinali e all’olio per i pistoni della tromba, non mancava mai un unguento per le labbra, a cui attingeva con frequenza), e se le era rovinate per via di quel suo modo di suonare la tromba, che premeva con forza sulle labbra: sui «chops», le bistecche, come diceva lui: I boppers avevano imparato a suonare con una tecnica più razionale e hanno conservato le labbra in perfette condizioni anche dopo molti anni di dura milizia jazzistica. A sessant’anni (Gillespie fa testo) suonano ancora benissimo, mentre Louis declinò dieci anni prima di loro.
L’intervista fu poi riassestata da Testoni – allora i magnetofoni non erano di uso corrente e bisognava ricostruire il dialogo con l’aiuto della memoria e di pochi appunti – e fu pubblicata su «Musica Jazz». Qualche giorno dopo ci arrivò l’ultimo numero di «Jazz Hot» che recava un’intervista fatta ad Armstrong negli stessi giorni a Parigi. Ci crediate o no, molte delle risposte di Louis erano uguali a quelle che aveva dato a noi: anche in quella circostanza evidentemente era riuscito a suscitare le domande a cui gli premeva rispondere, senza che né noi né il collega francese ce ne fossimo minimamente accorti.
In un’altra occasione, in quegli stessi giorni, mi capitò di vedere un’Armstrong molto diverso, quello che si trovavano dinanzi talvolta i suoi musicisti e che poteva essere molto duro. Mi ero infilato tra le quinte perché Earl Hines mi aveva promesso un’intervista subito dopo un concerto. Avevamo appena cominciato a parlare che la rauca voce di Louis (imperiosa e collerica) ci strappò dalle nostre speculazioni. Hines dovette interrompere il colloquio e raggiungere il suo leader, che gli inflisse subito una solenne lavata di capo. Si trattava di questo: durante l’esecuzione di un pezzo, colui che tutti i pianisti chiamano rispettosamente «Fatha», padre, perché era ed è tuttora un grande maestro, aveva suonato un accordo (un accordo, non due) che ad Armstrong non andava a genio: Una cosa da nulla per chiunque, ma non per Satchmo, che costrinse i suoi uomini a tornare sul palcoscenico, dinanzi alla platea ormai vuota, per ripetere più volte il chorus incriminato, guidandoli e rimproverandoli con un pedanteria e una severità che non avrei immaginato possibile in un jazzman. (Solo molti anni dopo avrei incontrato un caporchestra altrettanto severo: Buddy Rich). Quando i musicisti tornarono dietro le quinte seppi che Louis aveva strapazzato anche Barney Bigard, che aveva l’espressione afflitta e risentita di uno scolaretto rimproverato ingiustamente. «Non è vero che io non sappia tenere il tempo, io so tenere il tempo!» protestava a voce bassa: (Bigard è considerato uno dei più grandi clarinettisti della scuola di New Orleans, e allora era nel pieno delle sue forze!)
Quella tournée del 1949 ebbe un esito trionfale. Quando fu terminata sul tavolo di «Musica Jazz» piovvero un’ottantina di ritagli di recensioni apparse in altrettanti giornali italiani. I commenti più imbarazzanti erano quelli dei critici «classici» che non sapevano evidentemente cosa dire, e che facevano discorsi vaghi, pigiando sul pedale del colore: Quello che ci fece più arrabbiare fu Guido Pantani, che sulla «Stampa» assicurò che «oggi il jazz non è più di scena» e che soltanto restavano le vestigia del grande chiasso che se ne fece.». Incautamente profetizzò pure che se fosse tornato in Italia di lì a cinque anni Armstrong non avrebbe più trovato ammiratori, né il più piccolo cinematografo disposto ad ospitarlo.
Si sbagliava di grosso. Tre anni dopo Louis tornò e fu accolto come un re. Questa volta ad attenderlo alla Malpensa, c’erano almeno centocinquanta persone, e c’erano addirittura due «bande», montate su un camion: la Milan College Jazz Society e la Original Lambro Jazz Band, i cui componenti, emozionatissimi, facevano del loro meglio per suonare tutti insieme un decente Muskat Ramble (il jazz italiano stava dando, da qualche tempo, confortanti segni di vitalità). E dovunque Louis si esibì, in quei giorni, si dovettero appendere agli ingressi dei teatri i cartelli del «Tutto esaurito» E sì che il suo gruppo era assai inferiore a quello precedente: lui stesso sembrava aver perso lo smalto di un tempo – ma era febbricitante, e il suo labbro tumefatto faceva impressione.
Quando, quella volta, potei scambiare quattro chiacchiere con lui, gli chiesi, anzitutto, come andassero le cose, per il jazz, in America. Sapevo bene quale fosse la situazione, ma volevo la sua opinione, che prevedevo furbesca o faziosa. «Le cose stanno andando meglio (forse perché i boppers hanno fatto il loro tempo, pensai), benché oggi ci sia una cosa che chiamano cool jazz…» Nel pronunciare le parole «cool jazz» assunse un’espressione sgomenta, mentre la sua voce si arrochiva, rallentava , toccando i toni più gravi che avessi mai udito. Ma la smorfia di disgusto che fece voleva essere anche comica. E lo era.
Earl Hines lo aveva piantato in asso ed era sostituito da Marty Napoleon, il nipote di Phil, leggendario pioniere del jazz a New York: come il suo più celebre zio si chiamava in realtà Napoli ed era di origine siciliana. (Peccato che pretendesse di farsi capire da me parlando in un barbaro siculo-americano pressoché incomprensibile.) Quando Hines lo aveva abbandonato, Armstrong aveva dichiarato pubblicamente che l’amico poteva andarsene all’inferno. «E’ bravo, sicuro, ma possiamo fare a meno di lui», aveva concluso. Ricordandomi di quella sua uscita, volli chiedergli a mia volta spiegazioni circa quella separazione. Non per altro: perché volevo godermi una volta di più la sua impagabile mimica. Devo dire che Satchmo non mi deluse: mi lanciò un’ineffabile occhiata in tralice in cui si leggeva un furbesco ammiccare (come dire: «Ci siamo capiti…») e anche un pizzico di sospetto («Mi posso fidare di costui?»), poi di colpo assunse un’aria distaccata e mi spiegò che Hines è sempre stato direttore d’orchestra e che voleva tornare ad esserlo. Ora aveva quello che voleva e amici come prima.
Senonché per Armstrong il conto non tornava, perché Napoleon non valeva un’unghia del suo predecessore. Inoltre Trummy Young non era paragonabile a Teagarden, Bigard era stato sostituito dal modesto Bob McCracken e fra i superstiti – Arvell Shaw, Cozy Cole e la cantante Velma Middleton – il solo Cole, batterista metronomico, era degno della massima considerazione. Gli chiesi allora se fosse soddisfatto del suo complesso. Mentì spudoratamente, assicurando che ne era contentissimo. Poi, quasi volesse scaricarsi ogni responsabilità aggiunse che nella scelta dei componenti il suo complesso lui non metteva il becco. «Li sceglie Joe Glaser: è come un padre per me!» (Lo ripetè per anni a tutti, e lo pensava davvero. Peccato che Glaser – un ex gangster di Chicago che per primo mise in valore Armstrong quando questi suonava nel suo locale, il Sunset, nel 1927 – ricambiò l’affetto del suo pupillo in modo assai strano, passandogli uno stipendio mensile piuttosto modesto, se raffrontato ai compensi che chiedeva per le sue prestazioni.)
Che Armstrong lasciasse scegliere i suoi uomini a Glaser era vero, ed è difficile comprendere la sua acquiescenza a certe scelte: dopo Sidney Catlett e Cozy Cole tutti i suoi batteristi, dal primo all’ultimo, furono mediocri. E sì che avrebbe potuto permettersi di avere con sé i più grandi musicisti di jazz, molti dei quali, in quegli anni, se la passavano maluccio.
La verità – come avremmo visto sempre più chiaramente in seguito – era che Armstrong, come artista creativo, stava imboccando proprio allora il viale del tramonto. il labbro no serviva a dovere, e lui non si preoccupava molto della musica che faceva. Sembrava che gli premesse solo di accontentare il grosso pubblico, quello cosiddetto generico. «Io suono quello che la gente vuole sentire da me», ripeteva con stizza a chi, con delicatezza gli muoveva delle critiche e lo esortava a comportarsi da quell’artista che era e non da entertainer. Fatto sta che, col passare del tempo, i suoi concerti si trasformarono sempre più in divertenti spettacoli di varietà: gli appassionati di jazz – che ricordavano con nostalgia i grandi dischi degli anni Venti – andavano su tutte le furie quando vedevano la corpulenta Velma Middleton esibirsi in una rovinosa «spaccata» che faceva tremare le assi del palcoscenico, o quando Trummy Young si metteva ad azionare la coulisse del suo trombone con un piede.
Il canto del cigno di Louis fu un long playing dedicato alle musiche di W.C. Handy, inciso nel 1954. La reazione di molti fu pressappoco questa: «Ma allora, quando vuole, quel furfante sa ancora suonare!». Però, negli anni successivi, non volle, o non poté più. Fu invece, sempre più, un personaggio del mondo dello spettacolo, un animale da palcoscenico, un irresistibile attore e un inimitabile cantante:
In Italia, Armstrong compì altre tournées, nel 1955 e nel 1959. Poi tornò tutto solo per partecipare a una edizione del festival della canzone di Sanremo. Non capì bene di cosa si trattasse, cantò una canzone – piuttosto brutta – in italiano, fu eliminato dopo la prima sera, lasciò che qualcuno si servisse di lui per fare un po’ di pubblicità: «Armstrong è un vecchio e caro amico mio: guardate questa foto, guardate come mi guarda sorridendo» (questa storia si era ripetuta tante volte anche in passato e lui faceva finta di non accorgersene), e poi ripartì. A «Musica Jazz» arrivarono lettere accorate: i suoi fans delusi ci inviavano delle lettere aperte a lui indirizzate, che cominciavano con un «Caro, vecchio Louis» e dicevano in sostanza «Non lo dovevi fare. Perché ci hai tradito?»
Intanto però la stella di Armstrong splendeva più viva che mai nel firmamento della musica leggera internazionale. Un suo dico, contenente una versione di Mack the Knife, aveva avuto un successone; di un altro, con Hello Dolly, si erano vendute chissà quante centinaia di migliaia di copie. Giungevano notizie dei suoi trionfi dai quattro angoli del mondo. Durante una sua tournée nei paesi dell’Europa Orientale si videro scene di entusiasmo indescrivibili. Nello stadio di Budapest si ammassarono ben 93.000 persone festanti.
Se il grosso pubblico lo adorava, parecchi suoi colleghi in America gli avevano voltato le spalle. Per gran parte degli anni Sessanta divampò, negli Stati Uniti, la rivolta dei diseredati nei ghetti, ma lui non mostrò mai di voler scendere in trincea con loro: quando gli si parlava combattuta dai suoi fratelli di razza per la conquista dei diritti civili diventava evasivo: E’ uno «Zio Tom», ripetevano i negri d’America. Chi lo diceva si era dimenticato di quando, al tempo dei fattacci di Little Rock, Louis si era indignato al punto di rilasciare un’esplosiva intervista nel corso della quale mandò all’inferno nientemeno che il governo degli Stati Uniti, e mandò all’aria la tournée nell’Unione Sovietica che il Dipartimento di Stato stava preparando per lui.
Intorno al 1967, Jack Higgins, un impresario inglese allora attivissimo, mi scrisse per chiedermi se mi interessasse Armstrong per un breve giro di concerti in Italia. Gli risposi di no: la sua musica attuale vale molto meno di quello che costa, scrissi. debbo pensare che anche altri abbiano dato delle risposte analoghe perché quella progettata tournée di Armstrong non fu effettuata.
Ma devo confessare che quando appresi la notizia della sua morte provai rimorso per quella risposta.