Una primavera movimentata. BG senza occhiali

Nella primavera del 1950 successero molte cose importanti nel piccolo mondo del jazz italiano. Non soltanto arrivarono delle formazioni celebri come quelle di Benny Goodman e di Duke Ellington, che si esibirono con grande successo in diverse città, ma i primi complessi di jazz degli di questo nome cominciarono a essere conosciuti da un pubblico non più ridottissimo e incisero i primi dischi.
E’ esagerato affermare – come è stato fatto sulla copertina di diversi LP recenti – che gli anni cinquanta furono, per il jazz italiano, anni «ruggenti»; tuttavia sarebbe inadeguato parlare, a proposito di quel decennio di «vagiti» del nostro jazz, come pure è stato fatto. Si può dire che il jazz italiano sia nato proprio nei primi anni cinquanta, ma è certo che dimostrò subito di essere molto vitale e di voler camminare in fretta.
Allora, ancor più di oggi, praticamente tutti i jazzisti italiani di qualche rilievo erano concentrati a Roma e a Milano; i pochissimi che risiedevano altrove erano del tutto isolati e conducevano una vita dura. tra Roma e Milano c’era però una notevole rivalità; i jazzmen locali erano visti dai fans come campioni la cui superiorità sugli altri fosse indiscutibile e si dovesse proclamare ai quattro venti in ogni occasione.
Purtroppo (dico così perché sono milanese d’adozione) anche se a Milano ci si dava da fare più che altrove, le cose del jazz andavano meglio a Roma: voglio dire che nella capitale i musicisti di jazz erano più maturi,più avanti sul piano internazionale. Me ne dovetti rendere conto con chiarezza un giorno del febbraio 1950 quando assistetti, al cinema Splendore di Roma, a una rassegna delle forze jazzistiche locali organizzata dall’Hot Club. Vidi allora che la Roman New Orleans Jazz Band – quella stessa che aveva dato un sonoro benvenuto ad Armstrong – era una formazione tutt’altro che trascurabile, nel suo genere, e che il trombettista Nunzio Rotondo (un «milesdavisiano», allora) non aveva rivali in Italia sul suo strumento, mentre il suo quintetto (con Marcello Boschi al sax alto e Carlo Loffredo al contrabbasso, fra gli altri) era effettivamente il miglior gruppo bebop che avessimo nel nostro paese. Constatai anche che qualche altro solista, come il pianista Umberto Cesari e il chitarrista Carlo Pes, era meritevole di qualche attenzione.
Quando tornai a Milano, parlai con gli amici di ciò che avevo visto e ascoltato. Ne parlai anche con Angelo Rognoni, direttore di una delle più grandi case discografiche in quegli anni: quella che produceva i dischi Odeon e Parlophon. Non mi ci volle molto a persuaderlo di venire con me a Roma per registrare una serie di dischi coi miei patrocinati, e in particolare con Armando Trovajoli, la Roman New Orleans Jazz Band e i complessini di Nunzio Rotondo e di Umberto Cesari; dopotutto Rognoni aveva un debole per il jazz, come aveva già dimostrato incidendo, nel 1946, una serie di dischi di jazz italiano prodotti da Roberto Nicolosi.
A Roma ci istallammo in uno stanzone adibito al doppiaggio dei film (non c’era alcuno studio di registrazione, a Roma, nel 1950) e incidemmo del buon jazz, come da programma.
Poco dopo, in giugno, mi trovai coinvolto in una nuova jazzistica impresa: un Festival Nazionale del Jazz organizzato dalla Federazione Italiana del Jazz, da me rappresentata e dal Circolo milanese Amici del Jazz, per l’occasione fraternamente uniti. Il festival, in cui vennero presentati i migliori gruppi di Milano e di Roma, ebbe un successo assai maggiore di quello da noi riscosso qualche tempo prima a Firenze, e non solo perché i musicisti diedero una prova molto migliore, ma perché il pubblico prese d’assalto il teatro, esaurendo ogni ordine di posti in men che non si dica.
Fra i jazzisti già conosciuti fece allora il suo debutto un giovane tenorsassofonista piemontese che avrebbe fatto strada: Gianni Basso.
Come ho già anticipato, non furono quelli i soli avvenimenti di rilievo della primavera jazzistica del 1950. Alla fine di aprile era arrivato Benny Goodman, che aveva dato diversi concerti a Milano (al cinema Zenith, pensate un po’) e poi a Torino, Genova, Firenze, Bologna e Roma, con un complesso comprendente Roy Eldridge, Zoot Sims, Dick Hyman, Toots Thielemans, il bassista inglese Charlie Short, il batterista Eddie Shaughnessy e la cantante Nancy Reed. Un poco più tardi, in maggio, era arrivata per la prima volta la grande orchestra di Duke Ellington, che aveva iniziato da Milano una non breve tournée lungo la penisola, con numerosi concerti al Teatro Odeon (troppi, per esser tutti affollati).
Per me l’arrivo di Benny Goodman aveva rivestito un interesse del tutto particolare; ciò che mi premeva incantare non era tanto il suo clarinetto, il cui suono mi era familiare dai tempi del liceo, quanto l’uomo Benny Goodman: il Goodman vero, senza occhiali. (Già, perché i suoi proverbiali occhiali li metteva il meno possibile, e solo in pubblico. Gli servivano evidentemente per caratterizzare meglio la propria faccia, non per altro: probabilmente erano dei semplici vetri…)
il concerto era parso, a me e a molti altri, piuttosto squilibrato. Come avrebbero potuto conciliarsi la tromba infuocata ed esuberante di Roy con l’accademica eleganza del clarinetto goodmaniano e col «freddo» tenore di Zoot Sims (era uno dei famosi «quattro fratelli» da poco usciti dalla sezione dei sassofoni di Woody Herman: il che è come dire che era uno dei maggiori esponenti dell’allora trionfante «cool jazz»)? Per non parlare della torrenziale ma un po’ dispersiva fantasia di Thielemans e della percussione «beboppeggiante» di Eddie Shaughnessy. Tuttavia si vide subito che Goodman non era affatto quel freddo tecnico dello strumento che la critica francese (che faceva legge, in quegli anni) additava al pubblico disprezzo, e non era neppure un musicista «commerciale», visto che della platea sembrava non importargli nulla.
In realtà, nessuna delle persone con cui veniva a contatto sembrava attirare particolarmente la sua attenzione e muovere i suoi affetti. Verso i suoi musicisti ostentava un distacco del tutto inconsueto tra i jazzmen («Lui è il big boss», mi aveva confidato Thielemans, abbozzando una comica espressione tronfia, per imitarlo in qualche modo…), gli ammiratori e i giornalisti sembravano più che altro dargli fastidio, e , come ho detto, non si curava molto di chi ascoltava la sua musica, anche se con evidenza rispettava le supposte evidenze estetiche.
Per questa ragione gli avevo chiesto con senso di disagio un’intervista, prima dello spettacolo pomeridiano.
L’intervista mi fu concessa di buon grado – e non con un grugnito, come temevo – e non durò, come avevo appena osato sperare, tre o quattro minuti… No: dopo alcune mie domande sulla situazione del jazz in America, sui suoi possibili sviluppi, sui suoi maggiori musicisti, mi accorsi che l’uomo che mi stava dinanzi non era affatto l’inaccessibile «big boss» descrittomi da Thielemans. E i tre minuti d’intervista da me richiesti divennero venti, trenta… ma l’intervistato non era più Goodman: ero io. Perché Benny – constatai – aveva una acuta curiosità per le cose d’Europa: mi chiese della solidità della democrazia italiana, di Mussolini, della guerra, della ricostruzione… Poi mi parlò con competenza di pittura, e volle informazioni circa la possibilità di acquistare a Roma delle opere d’arte e vecchi manoscritti di musica, di cui disse di essere collezionista.
La sera, in un ristorante milanese, dove volle cortesemente invitarmi (ma andò a finire che il conto lo pagai io perché lui – distratto com’era – aveva dimenticato di cambiare i dollari che aveva nel portafogli….), mi parve finalmente di capirlo.
goodman non è, a differenza di tanti altri musicisti di jazz, un uomo semplice ed entusiasta. Della sua musica, il jazz, parla col distacco con cui potrebbe parlarne un compositore classico; si indovina in lui (nonostante le sue reiterate proteste di amore per il jazz) una struggente verso sfere più alte della musica. Ho capito male, o le sue frequenti scorribande nel campo della musica «dotta» tradiscono un inconfessato senso d’inferiorità?
Sul jazz del momento comunque si dimostrò pessimista. Il bebop non sembrava convincerlo, e la strada del progressive jazz, di cui allora molto si parlava, non poteva portare, a suo giudizio, ad apprezzabili risultati.
«Il jazz non ha nulla a che fare con la musica classica: senza beat e senza improvvisazione è finito», mi rispose con convinzione quando gli chiesi il suo parere circa certe recenti esperienze intese a gettare un ponte fra il jazz e la musica sinfonica europea. Ma il presente del jazz gli pareva oscuro per un altro motivo: troppi musicisti non fanno (o, quanto meno, allora non facevano) altro che copiare pedissequamente lo stile di pochi grandi maestri, e, in mancanza di idee personali ricorrono (o ricorrevano) a trucchi per abbagliare il pubblico. Inoltre sono (o erano) pochi i musicisti seriamente impegnati nello studio del loro strumento.
Questo fatto spiegava anche – secondo Goodman – la decadenza del suo particolare strumento, il clarinetto, il cui linguaggio è condizionato dalle sue stesse caratteristiche. «A clarinet has to sound like a clarinet» («Un clarinetto deve avere il suono di un clarinetto»), mi disse: la sua sonorità – in altre parole – non può essere modificata o deformata come è stato fatto per altri strumenti nel jazz.
Per quanto riguardava l’immediato futuro, BG (le sole iniziali sono d’obbligo per i grandi del jazz) dichiarò di non avere progetti; di non avere intenzione, a ogni modo, di ricostituire una grande orchestra. Avrebbe preferito dedicarsi all’attività concertistica.
del resto gli affari nel mondo del jazz non andavano bene come un tempo.
Non andavano bene soprattutto per BG. Lui non sembrava rendersene del tutto conto, ma colui che era stato per anni «il Re dello Swing» non aveva più un regno a disposizione. E senza regno si sentiva a disagio.