
Duke
Indice
Più d’uno, in Italia, nei giorni immediatamente successivi a quelli della sua scomparsa, ha parlato o scritto di Duke Ellington come di una specie di «Zio Tom», nato benestante e restato per tutta la vita attratto, affascinato dai bianchi: indifferente, per di più, ai problemi dei suoi fratelli di razza. Più grosse sciocchezze non si potevano sire. Anche se si dimenticano i consistenti aiuti sempre dati da Ellington alla NAACP (National Association For The Advancement Of Colored People) e il suo appoggio all’azione di Martin Luther King, c’è da chiederesi come possa essere nata quella storia di Ellington «Zio Tom». Lo «ziotomismo» presuppone un complesso d’inferiorità razziale, la consapevolezza d’avere a che fare con dei «superiori» e la propensione a umiliarsi dinanzi a loro, a servirli. Non si può essere degli «Zii Tom» senza provare almeno un po’ di soggezione di fronte ai bianchi. E Duke non provava soggezione di fronte a nessuno.
Accettava lauree ad honorem (né collezionò ben quindici), alte onorificenze, Oscar, trofei, targhe ed elogi con grazia divertita, senza neppure un briciolo di commozione. Alla presenza della regina d’Inghilterra o di qualche altro potente della terra si limitava a sfoggiare una cera un tantino più raggiante del solito, ma nei suoi occhi, strizzati nel sorriso, sopra quelle borse rigonfie, s’indovinava sempre un punta d’ironia. Chi ha visto il documentario del ricevimento offerto in suo onore, anni fa, alla Casa Bianca, dal presidente Nixon, sa ciò che voglio dire. Fra i due, chi sembrava farsi piccolo di fronte all’altro era Nixon, non Ellington. Altro che Zio Tom.
E altro che Duca. O forse sì: Duca, ma non di quelli che fanno fatica a mantenere il castello e a pagare il salario dell’autista e le tasse: Era un duca d’altri tempi. Dovunque andasse si portava il castello con sé. Voglio dire che si portava appresso la sua corte, in cui graziosamente ammetteva anche alcuni avventizi, ai quali assegnava un preciso status fra i suoi dignitari, vassalli e valletti.
Dopo che ebbi organizzato una dozzina di concerti suoi ebbi anch’io l’onore di essere ammesso alla sua corte, di passare, a più riprese, molte ore con lui, di viaggiare con lui, di cenare con lui nel suo appartamento d’albergo e di fare con lui la prima colazione («Cominciamo la giornata insieme», proponeva: ed era una sorta di rito dell’amicizia). Capii di essere stato ammesso nell’«inner circle» quando mi fu riconosciuto il diritto di essere dea lui baciato per due volte su ciascuna guancia: sinistra, destra, sinistra, destra. Un altro rito di corte: quasi l’attribuzione, e la ricorrente conferma di un’onorificenza dell’ordine di Ellingtonia.
Imparai lì, fra i dignitari della sua corte, che quella di Ellington è una religione. Alla corte di re Sole non doveva essere del tutto diverso, nella sostanza, perché anche lì, in Ellingtonia, si viveva in funzione di lui, si era tutti condizionati da lui, dal suo umore, dal suo stato di maggiore o minore benessere.
E il bello è che lui non chiedeva niente a nessuno, non pretendeva di essere intrattenuto o servito, e naturalmente non si preoccupava minimamente di intrattenere gli uomini di corte, neppure a tavola. Si aveva però il diritto di girar per casa – scusate, per il castello – di fargli delle domande, e di ricevere da lui delle cortesi, ma raramente impegnative, risposte. Con lui la conversazione era allentata, senza fervore, talvolta un poco sbadigliante, perché ogni cosa per lui era risolta da un pezzo. Specialmente quelli che riguardavano la musica e il jazz.
Sugli altri musicisti aveva opinioni perentorie. Aveva i suoi favoriti (Sidney Bechet, Willie «The Lion» Smith, Django Reinhardt e naturalmente louis Armstrong venivano da lui citati come esempi di grandi creatori) e le sue idiosincrasie: non riusciva a prendere sul serio Jelly roll Morton, e il solo pensiero di Thelonious Monk lo divertiva. (Una volta vide un numero di «Musica Jazz» la cui copertina era dedicata a Monk, che poche settimane prima era comparso anche nella prestigiosa vetrina di «Time». Si mise a ridere di gusto: «Ah, ma allora è proprio diventato un cover boy!» fu il commento) Nutriva un profondo disprezzo per gli imitatori, che per lui erano innumerevoli («Non ci sono scuole nel jazz» ripeteva «Ci sono solo alcuni creatori e migliaia di imitatori), ed era diffidente verso gli esponenti del jazz più avanzato. Una volta che un giornalista della RAI si azzardò a chiedergli che cosa pensasse di John Coltrane, lo vidi rabbuiarsi: «Mi rifiuto di rispondere!» dichiarò con enfasi. Non so però se quella risposta sottintendesse la sua scarsa stima per coltrane, col quale aveva registrato proprio in quei mesi un ottimo disco per la Impulse, o se fosse soltanto stanco di essere incastrato dai giornalisti su certi temi, e poi citato a sproposito.
Mi sono tuttavia sempre domandato quando e come potesse ascoltare la musica altrui. certo è che conosceva poco gli altri musicisti. A Sanremo, dove venne nel 1964, dimostrò di non conoscere neppure di vista Milt Jackson, il principe dei vibrafonisti, che lo aveva abbracciato con filiale devozione, e cadde dalle nuvole quando gli presentai il chitarrista Laurindo Almeida, che si esibiva quello stesso anno assieme al Modern Jazz Quartet. («Era il chitarrista di Stan Kenton, anni fa» spiegai. «E poi, sul finire degli anni cinquanta, ha fatto dei dischi con Bud Shank, dove si ascoltava praticamente già della bossa nova.» «Negli anni cinquanta? troppo presto» rispose scettico.)
Come avrebbe potuto ascoltare gli altri musicisti, del resto? dava concerti quasi ogni giorno, e quasi ogni giorno viaggiava da una città all’altra. Ciò che gli restava del suo tempo lo occupava, per quanto potei vedere, a comporre, a fare qualche rara prova con l’orchestra, e soprattutto a dormire. Dormiva moltissimo infatti, a qualsiasi ora. Un pomeriggio lo vidi sdraiato, immobile, su un nudo tavolo, nel camerino di un teatro, nell’intervallo tra un tempo e l’altro di un concerto. Un’altra volta, al termine di un frugale pasto consumato nel suo appartamento, mi affidò alla sua bionda compagna di turno per stendersi sul letto, nella camera attigua, dove dormì per mezz’ora, in attesa del momento di tornare i teatro.
Questi frequenti riposi gli erano indispensabili per reggere l’infernale ritmo di vita che conduceva, e che non poteva interrompere perché per lui non c’era nulla che contasse di più della sua orchestra e della sua musica. A dire il vero, la musica veniva molto prima della sua orchestra. I suoi intimi assicuravano che teneva unita la formazione perché per mezzo di quella poteva ascoltare la sua musica – in una versione «autentica» – subito dopo averla composta. o anche mentre la stava componendo: certe sue composizioni nascevano infatti, a pezzi e bocconi, dinanzi al pubblico pagante, il quale non si rendeva conto di stare assistendo al laborioso parto di qualche suite, e magari alle prove che lui non aveva avuto il tempo di portare a termine. ( questo il caso di Freakish Lights, la cui gestazione occupò una parte dei concerti da lui dati in Europa, e in parte li rovinò…)
Sta di fatto che avrebbe potuto condurre la tranquilla vita del nababbo invece di affannarsi in giro per il mondo, alla testa della sua orchestra, che era in permanenza sul suo foglio paga, suonasse o non suonasse. Verso il 1965 pagava complessivamente ai suoi uomini circa 1000 dollari al giorno (il meglio pagato era Johnny Hodges) ed è probabile che non riuscisse a recuperarli, come i suoi amici dicevano. la sua ricchezza proveniva dai diritti d’autore, che erano davvero cospicui. Con quelli riuscì ad accumulare una fortuna che al momento della sua morte fu valutata intorno ai trenta miliardi di lire (di allora…).
l’orchestra era dunque una sua propaggine, aveva la funzione di una bombola di ossigeno, senza la quale si sarebbe spento. Eppure degli uomini di quell’orchestra sembrava che non gli importasse nulla, se non come musicisti. A uno solo di loro sembrava sinceramente affezionato: Billy Strayhorn, il suo braccio destro, l’uomo che aveva scritto assieme a lui e per lui tanta splendida musica, a cominciare dalla gloriosa Take the «A» Train. Se lo portava con sé in tournée non tanto perché ne aveva bisogno per consultarsi con lui sulla musica che continuamente andava rimuginando, quanto perché voleva che condividesse i suoi trionfi. D’altronde, il piccolo, intelligentissimo Billy costituiva ai suoi occhi la personificazione di una parte cospicua della sua musica, ed era il suo critico più attendibile.
Con la maggior parte dei solisti invece Duke non parlava mai, o quasi. Ai vecchi tempi socializzava con loro, ricordano i più anziani dignitari della sua corte, ma da parecchi anni li incontrava solo quando se li trovava dinanzi sul podio per un concerto, o per una seduta d’incisione, o per qualche prova. A volte si sistemava in un albergo diverso dal loro.
Non era puntuale. Non di rado arrivava in ritardo in modo scandaloso. quando questo accadeva, prendeva il comando dell’orchestra Harry Carney, il solista più anziano, che la faceva partire con Take the «A» Train, Rockin’ in rhythm e così via. Quando gli subentrava lui, magari venti minuti dopo l’inizio del concerto, si continuava come se nulla fossa. Non era il solo ad avere il diritto di arrivare in ritardo. Arrivavano in ritardo quasi tutti. Quando era nell’orchestra, l’unico che fosse sempre puntuale era il «perbenissimo» della compagnia: Lawrence Brown, il trombonista. L’ultimo era Cootie Williams, il più ingrugnito, il meno socievole di tutti. il più annoiato era Johnny Hodges, che sul podi schiacciava spesso dei pisolini tra un pezzo e l’altro, e che quando si avvicinava l’ora del termine dello spettacolo mostrava con ostentazione l’orologio al suo leader. di tanto in tanto il Duca faceva a Hodges qualche dispettuccio, facendogli suonare una dopo l’altra le sue specialità, perché si svegliasse. E lui suonava splendidamente, come faceva sempre, ma io credo che in cuor suo maledicesse il suo capo per averlo disturbato. (Hodges non amava affatto Ellington, e questi lo ignorava, come ignorava molti altri suoi solisti. Non ho mai visto i due rivolgersi la parola.)
il ritardo non era la sola manifestazione di indisciplina dell’orchestra. Indisciplina che Duke tollerava perché rifuggiva dalle prese di posizione, odiava le discussioni. Preferiva fingere di non vedere. Fingeva di non vedere persino Paul Gonsalves, il suo brillante tenorsassofonista, che era costantemente ubriaco e si muoveva sul palcoscenico barcollando. (Una volta, a quanto mi riferirono, Duke perse la pazienza, a Londra, e licenziò su due piedi Gonsalves, che fu colto da una crisi di disperazione. una crisi che durò soltanto qualche ora: quando venne il momento del concerto, il sassofonista si ripresentò in teatro, riprese tranquillamente il suo posto in orchestra e duke lo lasciò fare.)
Sul podio i musicisti si guardavano bene dal tenere un contegno composto e silenzioso. la prima volta che vennero in Italia, nel 1950, andavano e venivano dalle quinte del palcoscenico con la massima disinvoltura. Quando l’orchestra suonava male – e ogni tanto suonava male davvero – era per via dell’indisciplina.
Fra tutti i suoi concerti che mi capitò di organizzare — poco meno di una ventina, nel giro di vari anni – il peggiore fu quello a cui assistettero alcuni ospiti illustri, a cominciare da von Karajan. Duke arrivò sul palcoscenico un quarto d’ora dopo che l’orchestra aveva cominciato a suonare con meno della metà dei suoi uomini, e la formazione non fu completa se non all’ultimo numero del primo tempo, quando comparve Cootie. E sì che Ellington era stato avvertito che il celebre direttore d’orchestra aveva preannunciato il suo arrivo: solo che la cosa non gli faceva né caldo né freddo…
Nonostante certi atteggiamenti non era superbo. certo, sapeva perfettamente quanto valeva la sua musica, e nel jazz non si sentiva secondo a nessuno. Ma non si dava arie da grand’uomo, anche perché era quasi sempre sopra pensiero. Era un civettone, questo sì. sapeva di avere del fascino e ne abusava. Le presentazioni dei suoi concerti, i suoi discorsetti erano dei piccoli capolavori di affascinante istrionismo. Erano sempre uguali, ma li faceva tanto bene che anche il classico «I love you Madly» (Vi amo follemente), che rivolgeva immancabilmente alla fine di ogni concerto a tutte le platee, fosse sincero.
Col tempo quell’»I love you madly» fu perfezionato. Intorno al 1970 Duke sapeva dire quelle parole in una decina di lingue, giapponese compreso. Quando compì la sua trionfale tournée nell’Unione Sovietica aggiunse la versione russa.
Era un uomo di mondo. Era sempre cortese e aveva modi da galantuomo di antico stampo. Con le signore era galante fino al virtuosismo. Con gli ammiratori era sempre affabile. (Una volta che, all’uscita di un teatro, ci trovammo dinanzi un centinaio di cacciatori d’autografi, mi impedì fermamente di fendere le folla, sia pure con dolcezza, come mi accingevo a fare. «Non fare mai una cosa simile», mi redarguì sottovoce, e poi si mise pazientemente a firmare le decine di foglietti che gli venivano porti.)
Come un uomo di mondo sarebbe stato perfetto se fosse stato anche un gourmet: invece mangiava sempre e soltanto una bistecca ai ferri con un po’ d’insalata, che faceva stringere il cuore. A suo modo era elegantissimo. Erano eleganti anche quei suoi pantaloni a tubicino, troppo corti, quei colletti che debordavano sul bavero della giacca, quelle sue cravatte a farfalla che parevano fettucce, quei suoi ampi cappotti stretti in vita da una cintura.
Anche l’incredibile zazzeretta che negli ultimi tempi gli scendeva sul collo aveva dello stile. Tutto in lui aveva dello stile.
Era uno stile che si era inventato da solo. non è vero infatti che avesse ricevuto un’ottima educazione nei migliori colleges di Washington, come qualcuno scrisse quando dovette redigere il suo necrologio. Era figlio di un cameriere che lavorò presso un medico finché non si impiegò nel ministero della Marina. Di soldi, in casa, ce n’erano pochi, tanto che Duke aveva dovuto cominciare a lavorare presto, rinunciando a giovarsi di una borsa di studio che gli era stata assegnata. Gli inizi professionali, poi, erano stati difficili anche per lui.
E tuttavia, fin dal principio, si comportò da gran signore, o meglio da grand’uomo. era appena un ragazzetto quando fu soprannominato Duca.