
Fioriscono le «bande»; entra Norman Granz
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Tra il 1951 e il 1952 gli appassionati del jazz (quanto meno quelli di Roma e di Milano) decisero che occorrevano dei locali disposti a ospitare la loro musica prediletta, e, poiché non ne esistevano, contribuirono ad aprirli e a mandarli avanti. Il problema delle orchestre da presentare non esisteva: senza parlare dei gruppi di stile moderno, che avendo per lo più carattere occasionale si costituivano e si disfacevano rapidamente, c’erano le formazioni tradizionali – quelle che suonavano in stile New Orleans e Dixieland – che imperversavano ovunque.
Quante erano? Non lo si è mai saputo con precisione; erano comunque almeno venti, stando ai risultati di un censimento che io stesso tentai di fare in quei mesi, sulla base delle segnalazioni che pervenivano alla Federazione Italiana del Jazz.
Risale a quel periodo anche la nascita delle due migliori formazioni tradizionali milanesi: la Original Lambro Jazz Band e Milan College Jazz Society, che dovevano fare i conti soprattutto con la Roman New Orleans Jazz Band e con un’altra orchestra appena nata: la Junior Dixieland Jazz Gang, animata da Francesco Forti e votata al culto di Bix Beiderbecke.
Ma c’era dell’altro, come si vide chiaramente al terzo Festival nazionale del jazz organizzato dalla F.I.D.J., nel novembre 1951, col patrocinio del settimanale «Epoca», al Teatro Studio di Milano, nel quale finirono rappresentati tutti gli stili del jazz ma soprattutto quelli tradizionali.
quanto ai locali, i prediletti degli aficionados erano il Mario’s Bar, in via Pinciana, a Roma, che era soprattutto animato dalla Roman, e, a Milano, l’Arethusa, a due passi da piazza Diaz, e il Santa Tecla, all’ombra del campanile di San Gottardo.
L’Arethusa e il Santa Tecla erano stati aperti per iniziativa di alcuni jazzofili di talento: Roberto Leydi, da poco entrato nella redazione di «Musica Jazz», i pittori Enrico Baj e Sergio Dangelo e il designer Joe Colombo. (Per merito di questi tre – a cui si aggiunsero poi lo scultore Umberto Milani e il disegnatore Tinin Mantegazza, che diede il suo contributo alla decorazione delle pareti e assunse alla fine la direzione del locale – il Santa Tecla divenne una sorta di piccola cappella Sistina dell’arte moderna milanese, cosa di cui i suoi proprietari non furono mai consapevoli, tanto che, alla fine, i preziosi graffiti, gli affreschi e gli altorilievi di cui era stata ornata la cave milanese furono grattati via per far posto a una volgare moquette…)
E’ superfluo dire che i Circoli jazzistici di Milano e di Roma la facevano da padroni in questi locali: vi sperimentavano nuove orchestre, vi presentavano concerti e vi davano persino qualche festa.
Non si deve credere tuttavia che tutto andasse nel migliore dei modi, nel mondo del jazz italiano. Si litigava spesso invece, perché ormai il pubblico era diviso in due fazioni, l’una contro l’altra armata: quella dei sostenitori del jazz moderno e quella dei tradizionalisti. Io ero considerato una specie di leader dei modernisti e in quanto tale ero il bersaglio favorito dei seguaci delle «bande» tradizionali, che, nell’ambito internazionale avevano i loro idoli in Armstrong e Sidbey Bechet, per citare solo due nomi emblematici. (Per noi questi due andavano benissimo: solo reclamavamo spazio e onori analoghi anche per Charlie Parker.)
Nonostante la situazione fosse enormemente migliorata rispetto agli anni precedenti, i concerti degli assi d’oltre Atlantico, in Italia, erano tuttora molto rari. nel 1952 vennero soltanto Dizzy Gillespie, con un complesso mal raffazzonato in cui l’unico altro solista di rilievo era Don Byas, e un gruppo guidato dal discusso clarinettista Mezz Mezzrow: il «dio bianco» del jazz, secondo Hugue Panassié, che lo portava alle stelle con la cocciutaggine e la faziosità per cui andava già famoso.
Gillespie fece un figurone e ci divertì molto come avrebbe sempre fatto negli anni a venire; Mezzrow invece fece una figuraccia, a cui riparò solo la presenza di Zutty Singleton, i veterano batterista di New Orleans.
Tuttavia il più notevole avvenimento del periodo di cui ci stiamo occupando fu rappresentato dall’arrivo a Milano di Norman Granz, a cui soprattutto si deve se l’Italia jazzistica uscì dalla situazione di emarginazione provinciale in cui, anche per ragioni economiche, si dibatteva da sempre.
Di solito, quando dico che non ho mai litigato con Norman Granz, non vengo creduto. Dagli uomini del mestiere, intendo: impresari, organizzatori di concerti, musicisti di jazz. Se qualcuno mi crede, pensa di sicuro che io sia un tipo remissivo, che si lascia vessare. Il fatto è che Norman Granz – il principe degli impresari nel mondo del jazz – ha fama di essere un uomo molto difficile, e la merita tutta; è un uomo prepotente, intollerante, spesso arrogante e qualche volta isterico, per dirla con le parole di chi non lo ama.
io però sono un suo affezionato amico che con lui non ha mai litigato. posso provarlo per iscritto: il certificato di buona condotta me l’ha rilasciato proprio lui, in forma autografa, quando mi dedicò un libretto (da lui stesso pubblicato nella limitatissima tiratura del caso) che qualche anno fa regalò agli amici più stretti, quorum ego. Si tratta di una raccolta di riproduzioni a colori dei quadri di Picasso che costituiscono i pezzi forti della sua ricchissima collezione; credo che, data la ridotta tiratura, ogni copia del libro gli sia costata 100 dollari (anzi, mi pare proprio che me lo abbia detto lui). Bene, sul frontespizio, Norman Granz ha scritto: Ad Arrigo Polillo – a un amicizia che è sopravvissuta a due decenni di vicissitudini jazzistiche. Io la considero una decorazione, molto più preziosa di una commenda.
Quei due decenni di «jazz vicissitudes» (così sta scritto, per l’esattezza) sono stati pieni di affanni, oltre che di jazzistiche emozioni. Tuttavia li ricordo volentieri, così come ricordo volentieri l’uomo che in modo tanto ingombrante li occupò, proprio lui, Norman Granz.
lo avevo incontrato per la prima volta nel gennaio del 1951. Aveva fatto da tramite per quel nostro incontro Mario De Luigi senior, allora direttore e proprietario di «Musica e dischi», il periodico milanese dedicato all’industria discografica. Gli era capitato in redazione un giovanotto che non conosceva: «Si chiama Norman Granz; è arrivato a Milano perché vuole presentare dei concerti di jazz, e allora ho pensato di metterlo in contatto con lei», mi aveva detto per telefono De Luigi. «Entro mezz’ora sono lì», gli avevo risposto, e infatti una ventina di minuti più tardi mi trovavo a cospetto del personaggio, di cui naturalmente sapevo già quasi tutto. per lo meno che era il più potente impresario che si occupasse di jazz (concerti e dischi) e che i più grandi nomi del jazz americano erano sotto il suo controllo.
I concerti che presentava da qualche anno, in America, sotto l’insegna di «Jazz at the Philarmonic», avevano avuto un successo trionfale: ora pensava di presentarne pure in Europa, e quindi in Italia, per la gioia dei jazz fans.
Di questo Norman era infatti sicuro: di essere un dispensatore di jazzistica felicità. Una specie di Babbo Natale nella cui slitta si pigiavano, pensate, Dizzy Gillespie e Charlie Parker, Coleman Hawkins e Lester Young, Billie Holiday e Ella Fitzgerald, Oscar Peterson (da lui appena scoperto in Canada) e Roy Eldridge, Gene Krupa e Art tatum, e chi più ne ha più ne metta: «Tutti gli altri», insomma.
Quando lo incontrai Norman era un giovanotto biondo, di taglia atletica. Aveva trentadue anni, uno più di me. Era già miliardario e sembrava ben sicuro di meritare di esserlo. Solo qualche anno più tardi capii che lo meritava davvero: fra gli uomini di affari che ho incontrato nella mia vita solo un paio mi sono sembrati abili, «soverchianti», fantasiosi e creativi quanto lui. Ogni banalissimo affare diventava nelle sue mani (e, prima, nella sua immaginazione) un’epica impresa, in cui misurare le proprie forze con quelle – sempre più deboli – degli altri, e che si concludeva inevitabilmente con la vittoria del migliore. Non migliore perché più svelto o – Dio liberi – più furbo furbo: migliore perché moralmente più temprato, perché più coraggioso, più intelligente, più serio: in una parola, più dotato.
Ho ascoltato tante volte, da lui, il racconto del progetto di qualche affare in gestazione, e confesso di essere rimasto sempre incantato. Nella sua mente l’»affare», qualunque fosse, si presentava sempre nei termini di un’ordalia medievale, un duello fatale in cui vince il prediletto da Dio; un disegno di scala planetaria il cui fine ultimo la disseminazione della gioia fra le popolazioni toccate dalla grazia, ovvero amanti del jazz.
Non che Norman fosse un’idealista fasullo, badate bene. Anzi, mille volte ha tenuto a dichiararmi che il suo unico scopo è quello di far denaro; ma lo diceva perché voleva – e vuole tuttora – apparire sincero fra gli impresari, in mezzo ai quali erano troppi i falsi idealisti, quelli che fingevano di darsi da fare per amore del jazz mentre pensavano solo ai soldi. Spesso, anzi, ogni volta che gli riusciva, umiliava quegli impresari in ogni modo possibile: Norman prendeva infatti piacere a sbugiardare la gente, a rivelarne, coram populo, la meschinità e le contraddizioni. Per questo molti non lo potevano soffrire.
Quella volta, nel 1951, con lui non riuscì a combinare nulla. lo accompagnai negli uffici di Remigio Paone, ma la conversazione che avemmo con il braccio destro dell’impresario napoletano si arenò miseramente quando ci dovemmo rendere conto che il compenso giornaliero chiesto da Granz per il suo Jazz at the Philarmonic (2500 dollari) era stato giudicato inaccettabile solo perché si era capito, dall’altra parte, che si trattava di un compenso settimanale. («Ha capito settimana?…» mi chiese a un certo punto Granz con aria sgomenta. E io esitai a dirgli che era proprio così.)
Sta di fatto che ci lasciammo con la promessa reciproca di riprovarci l’anno successivo; quanto a me, gli promisi che ci saremmo incontrati a Parigi dove avevo ormai deciso di recarmi per assistere allo spettacolo le cui meraviglie avevamo descritto negli uffici degli Spettacoli Errepì.
A Parigi del resto volevo andare anche per altre ragioni. Tra la fine di marzo e i primi giorni di aprile del 1952 si sarebbero svolti alla Salle Pleyel, in concomitanza col secondo Salon du Jazz organizzato da Charles Delaunay, diversi importanti concerti in cui l’Italia era ben rappresentata: dalla Roman New Orleans jazz Band e dal sestetto dell’Hot Club di Roma diretto da Nunzio Rotondo. Oltre a loro e al Jazz at the Philarmonic (con Ella Fitzgerald, Oscar Peterson, Lester Young, Flip Phillips eccetera), avrei potuto ascoltare Sidney Bechet e la crema dei jazzisti europei.