
Ella, Oscar & Co.
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Non so proprio quanti concerti io abbia presentato per conto di Norman Granz nel corso dei vent’anni di collaborazione con lui. Diverse decine, ad ogni modo. Salvo che ci fosse richiesto da un terzo (per la partecipazione di qualche suo artista a un festival del jazz, per esempio) non fu mai firmato alcun contratto fra noi: bastava la parola, magari sussurrata tra le quinte di un concerto quando si era in tutt’altre faccende affaccendati. Ci eravamo abituati a dirci così poche cose che in un occasione non fui sicuro, fino all’ultimo minuto, se mi ero accordato per lui per un concerto del trio di Oscar Peterson.
Fu proprio quella volta che mi colarono sulla fronte i più copiosi sudori freddi, ma non fu la sola occasione in cui i concerti Granziani mi procurarono intensi affanni, che fortunatamente spartivo sempre con Pino Maffei, venuto a condividere le jazz vicissitudes di ogni tipo fin dai primi anni Cinquanta. Ora che ci penso, mi vengono in mente anche le arrabbiature che ci procurava sempre ray Charles – «divo» e uomo indisponente, prepotente e non puntuale come pochi -, nonché la tensione che regnava tra le quinte del concerto dato da Miles Davis con John Coltrane nel 1960, i ritardi degli arrivi di certi personaggi (Sonny Rollins e John Coltrane, fra gli artisti inviati da Granz, batterono ogni primato), e il contrasto che divise per la prima volta me e Maffei da lui nel corso del Festival del jazz di Sanremo del 1960, in cui noi avevamo ingenuamente preteso di ricomporre a nostro modo (per le esigenze del nostro festival e per quelle della televisione) la successione dei «numeri» in cui si articolava il Jazz at the Philarmonic.
Pe lo più, comunque, l’atmosfera dei concerti presentati assieme a Norman Granz era molto serena. Tutto si svolgeva secondo un preciso, immutabile rituale: accoglimento all’aeroporto, autobus per i musicisti e macchina privata per lui, Ella Fitzgerald, Ray Charles o qualche altra superstar, corsa all’albergo – sempre quello – e cena, prima del concerto, tra me e Granz,, in cui si parlava in egual misura di jazz, di politica internazionale e di pittura, e in modo particolare di Picasso, il suo idolo.
Picasso non era soltanto il pittore di cui possedeva il maggior numero di quadri; era anche un suo amico personale, che lo ospitava spesso nella sua villa di Mougins.
Ricordo con quale entusiasmo mi parlava sempre dei suoi incontri con «Pablo», come lui amava dire, e l’orgoglio con cui mi mostrava i disegnini che di tanto in tanto il maestro schizzava su foglietti di fortuna per subito regalarglieli: ricordo anche gli sforzi che aveva fatto in principio, per potere entrare nella cerchia dei più intimi. Una volta fu lì lì per dare un concerto tutto per Picasso sulla Costa Azzurra. Non per nulla l’attuale etichetta discografica di Granz si chiama Pablo, ed è ornata da un caratteristico disegno del pittore.
Quanto al jazz, i nomi che venivano più spesso alle labbra di Granz erano quelli di Ella e di Oscar, di cui era ed è tuttora l’accorto manager.
devo dire che fu una fortuna per me che i suoi pupilli fossero loro e non altri: è difficile infatti trovare sul pianeta del jazz dei personaggi altrettanto collaborativi
Non era possibile avere grane con Ella. In ogni concerto si comportava come una timida debuttante: arrivava puntualissima in teatro, si metteva buona in camerino a chiacchierare con la segretaria che la seguiva ovunque, e se si rendeva conto che tra il concerto pomeridiano e quello serale non c’era un intervallo abbastanza ampio, si adattava con buona grazia a consumare un frugalissimo pasto in camerino. E poi,, quando veniva l’ora dello spettacolo, dava tutta sé stessa, spremendosi letteralmente coi bis, per il timore di deludere il pubblico. Per chi stava ad ascoltare provava infatti un grande affetto: sembrava che tra lei e il pubblico fosse in corso da anni un misterioso love affair.
Peccato che, se Ella è quanto mai conciliante, non altrettanto si può dire per Norman Granz quando si tratta della sua pupilla, per la quale prova un’ammirazione sconfinata e verso cui ha un atteggiamento paterno, pieno di bonomia e di indulgenza, ma anche molto possessivo. «Tu sa come è Ella», mi ha ripetuto chissà quante volte per giustificare qualche diniego: ma io sapevo che Ella non centrava mai con i «no». Li decideva e li diceva tutti lui, per proteggerla.
Oscar Peterson è meno docile di Ella ma è sempre stato un collaboratore altrettanto piacevole, e allergico alle grane. Sempre gentile, spiritoso anche, è il commensale ideale, oltre che un pianista formidabile.
Ha poi una caratteristica che lo distingue dagli altri musicisti di jazz: dice chiaramente il suo pensiero sui colleghi che non gli piacciono, e che sono molti. I suoi bersagli favoriti sono i musicisti d’avanguardia o comunque non ortodossi: non bisogna parlare con lui di Ornette Coleman, o di John Coltrane, o di Thelonious Monk (ma l’elenco potrebbe continuare), il che si può comprendere se si considera che Peterson ha sempre messo sopra ogni cosa la maestria tecnica, il rigoroso rispetto per le «buone regole» e più in generale per le tradizioni del jazz.
Dizzy Gillespie e Roy Eldridge sono altri favoriti di Norman Granz, presentati più volte al pubblico italiano nel corso della nostra collaborazione.
Il suo prediletto era e resta Roy, e ne capisco la ragione. Non si tratta solo di un grande jazzman ma anche di un uomo simpatico e molto generoso, con cui non si può non andare d’accordo. «Ha quel pizzico di competitività in più che piace a me», ripete Norman, che ha sempre amato, del jazz, l’aspetto sportivo, competitivo, appunto. In un’occasione, tuttavia, il gusto per la competizione mise in crisi Roy, e fu quando Granz lo affiancò in molti concerti a Gillespie, per godersi, e far godere al pubblico, delle «battaglia di trombe» memorabili, anche per la loro dimensione «storica».
A un certo punto la singolar tenzone fu tolta dal programma dei suoi concerti: «Roy ha l’impressione» mi spiegò poi Norman con aria un poco afflitta «che Dizzy suoni più tromba di lui». In effetti le sconfitte bruciano sulla pelle di Roy, che oltretutto si sente personalmente castigato se si accorge che qualche amici segue con indifferenza le sue prestazioni. («Non avevi l’aria molto soddisfatta stasera» mi ha detto più di una volta, intendendo dire: »vedo che non ti sono piaciuto…».)
Altro musicista amatissimo da Norman Granz era Coleman Hawkins. Colui che fu soprannominato «l’uomo che inventò il sassofono» fu presentato solo tre volte in Italia: le prime due, nel 1958 e nel 1966, con due diverse troupe del Jazz at the Philarmonic, e la terza nel 1967, col trio di Oscar Peterson. Andò benissimo la prima volta, in cui Hawk apparve nel pieno delle sue forze e trascinò all’entusiasmo il pubblico del Teatro di via Manzoni, a Milano (quel giorno entusiasmò anche Stan Getz, che accanto a me mormorò ammirato: «Questi uomini devono avere un sangue più forte del nostro…»); andò ancora bene, anche se non benissimo, la seconda, in cui il maestro apparve incredibilmente invecchiato al pubblico del Lirico ma ebbe sprazzi di autentica grandezza (alla fine si sentì Granz che gli diceva con espressione rispettosissima: «Sei sempre il maestro». Andò infine malissimo l’ultima volta, quando Hawkins, semidistrutto dall’alcol e da certi recenti affanni si presentò al pubblico del Lirico con un’ispida barba e grandi borse sotto gli occhi, per portare a termine con enorme fatica il suo numero accanto a Peterson:
«Meno male che anche stasera ce l’abbiamo fatta», mi disse quella volta, alla fine del concerto, il pianista, evidentemente provato dalle penose esperienze di quella sciagurata tournée europea. E sì che non avevo visto la scena più penosa, svoltasi in camerino prima dell’inizio del secondo tempo, quando io e un amico avevamo dovuto unire le forze per sollevare di peso dalla sedia il riluttante sassofonista, troppo ubriaco per reggersi in piedi, ma troppo orgoglioso per ammettere di aver bisogno di aiuto.
Ella, Oscar, Roy, Dizzy, Hawk… Sarebbero bastati, ma c’era altro sulla slitta di Babbo natale Norman Granz. C’era, spesso, nei primi tempi, Flip Phillips, sassofonista generoso ed eccitante; c’era Bill Harris, già trombonista del «primo gregge» di Woody Herman e prima ancora camionista; c’era il sempre distintissimo Benny Carter, vecchia gloria del jazz; c’era Willie Smith; c’era Teddy Wilson (troppo amante del whisky negli ultimi anni…) E poi i batteristi: Gene Krupa e Louie Bellson, fra gli altri. Spesso, proprio come Dizzy e Roy, i solisti di uno stesso strumento venivano messi l’uno a fianco dell’altro perché si stimolassero nella competizione (anche se si trattava di tipi diversissimi come Stan Getz e John Coltrane). Granz aveva infatti l’idea fissa degli «incontri» – o meglio scontri – fra i grandi rivali. Ci pensava sempre, anche quando stava male. Una volta ricevetti una sua telefonata da Reykjavik, in islanda, dove era rimasto bloccato in ospedale da una grave forma di epatite virale: dall’altro capo del filo sentii arrivare una voce velata, proprio da moribondo, che mi chiedeva «che cosa pensi di un concerto in cui fossero uno di fronte all’altro Miles Davis e Dizzy Gillespie? Se Miles ci sta lo facciamo».
Una volta mi divertii a rigirargli la domanda: «Perché non organizzi una tournée in cui siano messe a confronto Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan? «. «Sai com’è Ella…» mi rispose. «Si metterebbe a fare la mattatrice e farebbe a pezzetti Sarah…»
Non se ne fece niente, ma io resto dell’opinione che si trattava di una buona idea.