L'uomo di Newport

Qualche tempo dopo Norman Granz comparve in Italia quello che sarebbe divenuto il suo grande rivale: George Wein. Arrivò nel 1954, subito dopo aver varato il primo festival del Jazz di Newport, e per questo era carico di entusiasmo e di ottimismo. Fino ad allora aveva gestito soltanto un piccolo locale jazzistico a Boston, lo Storyville, ma la sua fama era stata circoscritta. Ora era venuto anche per lui il big time, e Dio sa se la cosa gli piaceva.
Un tipo tutto diverso da Granz, Wein, anche se i due hanno in comune l’origine, essendo entrambi ebrei, discendenti da immigrati dell’Europa orientale (come, del resto, gran parte degli agenti e impresari americani, e dei musicisti di jazz bianchi). Mentre Granz è un uomo severo, intransigente, freddamente razionale, qualche volta crudele, Wein è un gran cordialone, che vi dà continuamente delle ideali pacche sulla schiena e ride spesso… Il primo è un perfezionista, il secondo, sotto certi aspetti, è accomodante. Granz mantiene certe distanze dai suoi uomini (salvo eccezioni ben definite: Oscar, Roy, Ella e pochi altri), Wein è cameratesco con tutti. in comune, i due hanno un indiscutibile amore per il jazz (ma Granz fa mostra di aver superato quello stadio) e un altrettanto indicibile propensione per i grandi progetti.
Io ho ammirato Wein soprattutto quando l’ho visto in azione, mentre dirigeva le operazioni durante un difficile Festival del Jazz a Newport: pareva un generale d’altri tempi sul campo di battaglia. Capace di rendersi immediatamente conto delle situazioni, prendeva decisioni subitanee e sagge, e le faceva eseguire dando ordini perentori ai propri collaboratori. Granz a certi dettagli operativi non si sarebbe abbassato: avrebbe perduto la pazienza e il controllo dei nervi, e avrebbe a lungo deprecato l’imbecillità umana. («Io amo la gente, « mi disse un giorno Wein, «Norman invece la odia: questa è la differenza.») Con tutto ciò era, per lo meno per me, più facile litigare con Wein che con Granz.
Anche con George Wein furono subito allacciati rapporti di lavoro: si può dire che l’80% dei gruppi di jazz venuti in Italia negli ultimi vent’anni siano stati inviati o da Wein o da Granz.
All’inizio Wein pilotava personalmente i complessi che portava, poi fu sempre più assorbito dai suoi affari in America Venne, per esempio, con Thelonious Monk, e non venne invece con Charles Mingus, né con Max Roach e Abbey Lincoln.
In anni più recenti, prese parte ad alcuni festival del jazz da lui programmati in america e quindi esportati in Europa (e quando veniva suonava – ahinoi – il piano coi Newport All Stars: un gruppetto di Dixielanders in cui figuravano il più delle volte Ruby Braff Pee «Wee» Russell); poi si accontentò di seguire le cose da lontano.
Quando veniva non mancava mai di illustrare qualche grande progetto per l’immediato futuro. Si trattava sempre di festival del jazz: ciò che cambiava era la località, il finanziatore e magari qualche nome. Ma nei suoi progetti (a differenza che in quelli di Granz) non c’erano mai delle trovate; c’era però (e c’è ancora) una maggiore larghezza di idee, una grande disponibilità nei confronti di qualunque stile jazzistico. Solo verso l’avanguardia Wein si è sempre dimostrato restio, ma non per ragioni critiche, bensì in considerazione dell’indifferenza (per non dire l’ostilità) del pubblico americano per gli stili più avanzati. per Wein infatti chi comanda è il pubblico (sia pure quello qualificato, degli appassionati di jazz): per Granz contano invece solo i suoi gusti personali: i musicisti che piacciono a lui sono gli unici che contano; gli altri non sunt in mundo, semplicemente.