Sydney Bechet

Gli anni cinquanta ebbero un nume tutelare, per quanto riguarda il jazz in Europa, e in particolare quello di tipo tradizionale: era Sidney Bechet. Era comparso – non per la prima volta – a Parigi nel 1949, quando si esibì alla Salle Pleyel, nel grande festival organizzato da Delaunay. Dire che allora ebbe un grande successo è dir poco: fu il trionfatore della manifestazione, in cui pure non mancavano jazzmen illustri, a cominciare da Parker.
In quei giorni Delaunay gli propose di tornare in Europa al più presto: gli avrebbe fatto da manager e lo avrebbe fatto suonare un po’ dappertutto. Dopo che fu tornato lo si vide e lo si ascoltò spesso infatti: d’estate sulla Costa Azzurra (a Juan Les Pins c’era un ritrovo all’aperto, il Vieux Colombier, dove il suo sassofono soprano imperversava ogni sera), d’inverno nelle grandi città europee e soprattutto nelle caves della Rive Gauche, a Parigi.
Comparve per la prima volta a Milano nel novembre del 1952: qui i «mammasantissima» locali del jazz lo avevano atteso con una certa trepidazione. Come avrebbe suonato? si chiedevano da tempo: forse qualcuna di quelle ignobili cose, tipo Les Onions, che lo avevano trasformato in un idolo delle folle in Francia? era possibile, e non si voleva che succedesse. a Milano i «puristi « prevalevano su gli altri.
Si decise che bisognava catechizzarlo: spiegare a Bechet che noi non volevamo ascoltare Les Onions o cose del genere; che noi sapevamo benissimo che era stato uno dei pionieri del clarinetto a New Orleans e che era il maestro di tutti coloro che suonavano il sax soprano, e ci aspettavamo da lui della musica di alto livello, o almeno «non commerciale», come si diceva allora.
Si assunse l’onere di persuaderlo a mantenersi all’altezza della situazione Pino Maffei, che andò a riceverlo alla stazione e conversò poi a lungo con lui, tenendolo sottobraccio. Dovette essere diplomatico e convincente, perché Bechet, che non era precisamente un bonaccione (era un tipo piuttosto burbero, invece, come avrei constatato più volte in seguito), non se la prese e si sforzò di seguirne i consigli. però il pubblico del jazz era prevenuto contro di lui e non affollò il teatro: la mattina del 16 novembre al Nuovo non c’era neppure il solito cordone di polizia, e nessuno infranse le porte di vetro all’ingresso. Chi andò ad ascoltarlo, ad ogni modo si divertì: ogni tanto si levavano dalla platea delle grida ammirate del tipo «Sei un drago»; «sei un califfo»». E gli applausi scrosciavano fitti.
Poi Bechet venne ancora: nel 53 suonò a Torino con la Milan College Jazz Society, da poco nata ma già molto popolare; nel 57 apparve come vedette del secondo Festival del jazz di Sanremo. Così che quando nel 1959 si diffuse la notizia della sua morte, avvenuta nei pressi di Parigi proprio nel giorno del suo settantaduesimo compleanno, molti, anche in Italia, sentirono di avere perso un amico.
Io lo ricordo come un uomo caparbio, diffidente, scarsamente tollerante e soprattutto molto sicuro di essere un grande musicista di jazz: Quando parlava sembrava che usasse il pluralis majestatis: vi guardava con un sorrisetto di superiorità, proprio dall’alto in basso, e vi faceva cadere addosso le parole, con studiata lentezza.
Con lui ebbi un solo contrasto. Quando arrivò a Sanremo mi chiese in quale albergo fosse alloggiato, e io gli feci presente che il suo manager, Delaunay, mi aveva scritto (mostrai la lettera) di non preoccuparmi per l’alloggio ché avrebbe provveduto a prenotarlo lui da Parigi. Gli assicurai comunque che gli avrei trovato subito un albergo, ciò che fu fatto nel giro di pochi minuti. «Vi perdono», mi disse alla fine, dopo essersi molto arrabbiato con noi.
Ora, quando capito a Juan les Pins non manco mai di passare davanti al suo monumento in bronzo, collocato su un cippo, sotto la pineta. Penso che quel monumento (somigliante, non c’è che dire) se lo sia meritato, e non solo perché si dovette a lui il lancio di Juan les Pins come spiaggia alla moda (e questa è la principale ragione del monumento), ma perché nessun altro fece per il jazz, in Europa, quanto fece lui. E gli si può perdonare quel suo sorrisetto di superiorità e quel sottinteso pluralis majestatis.